Riccardo Reina e la Ilva di Saronno nelle Marche con i vini de La Canosa
Personalmente, non sono affatto sorpreso. Sono anni (parecchi anni) che bazzico le Marche da vino, con lo specifico compito di curatore per la Vinibuoni d’Italia negli ultimi cinque e con vari, ma intensi, focolai d’interesse professionale in precedenza. Le ho bazzicate e sondate dal confine nord pesarese, passando per le terre del Conero, della Vernaccia Nera e del Verdicchio, fino ai calanchi fascinosi e fragili di quello sud con l’Abruzzo, il limite marcato dal Tronto. E sono anni (parecchi anni appunto) che sono convinto che qui coabitino terroir eccellenti, uve singolari e intriganti, e vinnaioli dalle mani giuste.
Dunque, la scelta di un calibro da novanta come la Ilva di Saronno e del suo ambizioso conductor Riccardo Reina di approdare e metter tende (ma spiantando tendoni), dopo il grande splash down siciliano, a una manciata di chilometri da Rotella (Ap), giusto in faccia al complesso medievale di Poggio Canoso, insediamento monastico addirittura pre Farfa, “padre putativo” di quest’ultimo e talmente consolidato all’epoca da essere esentato da ogni giurisdizione (e tassazione) vescovile pur in terra di profondo humus papalino (ben sei nativi di questi paraggi) come sono le Marche, e questa loro fetta in particolare, mi è parsa tutt’altro che una mattità.
Cento ettari di terreni “gustosi” quanto variabili per composizione, ma con una presenza di marne bianche evidente all’occhio; di essi, 25 circa vitati (quote fino a 550 metri con esposizioni assortite); e prove di varie uve. Ma focus deciso e irreversibile su Sangiovese, Montepulciano (sia vinificati in purezza che mixati secondo tradizione nel Rosso Piceno base e nel Superiore), Pecorino e Passerina; con l’aggiunta di Pinot Nero (destinato alla spumantizzazione, almeno per ora) e un po’ di Chardonnay, il cui ruolo è ancora da focalizzare pienamente. In progetto anche la (ripresa di) produzione di grani duri pregiati, di cui fette di questa zona (storicamente madre di grande pasta peraltro, come del resto il vicino lembo d’Abruzzo) erano rinomata patria, oggi parzialmente perduta.
E’ il progetto di Reina, appunto. Che si avvale della partecipazione professionale di un consulente di passo e di grido come Carlo “smart” Ferrini (il meglio vestito tra i grandi enologi italiani), ma anche della solida presenza fissa di Emidio Felicetti, il tecnico “resident”, ascolano, assolutamente non attempato, ma già di lungo e collaudato sorso, con elastico tra luoghi e brand come Brancaia e Umani Ronchi, per citarne un paio.
Il risultato: per ora, nell’assaggio di quanto riportato a seguire. Considerata la gioventù di vigne, cantina (ma davvero efficace e ben pensata) e piano d’azione, tutto è da attendere in ulteriore, considerevole crescita nei prossimi anni. Soprattutto i rossi di punta.
I vini
Spumante Brut (Passerina 100%): bolla decisa, morbidezza abbastanza evidente e pronunciata, ma “tenuta” dal finale sapido e dalla acidità sufficiente. Piacevolezza tutto sommato proporzionata al suo prezzo (8,70 euro in cantina, al privato in visita).
Spumante Brut Rosé (uve Pinot Nero e Sangiovese): Il “trapiantato” sciampagnotto regala note di eleganza e suadenza ai profumi, e di piacevole vinosità al gusto. Un filo appena fuori rotta il finale, dal tocco amarognolo, emendabile e infine non spiacevole (stesso prezzo del Brut bianco)
Marche Igt Passerina Servator 2009: freschezza vera, l’asciuttezza del vitigno, avaro di note aromatiche ma non di pasta gustosa, ancorché leggera. Anche qui, buona punta sapida. Tipica, ben bevibile, non monstre. (euro 7,50)
Marche Bianco Pekò 2009: 100% Pecorino, di cui sciorina d’impatto la consistenza e un pizzico di morbidezza. A regalarla è sostanzialmente anche l’alcol (sui 14°); ma ad armonizzarne la fisicità, con buona eleganza (anche aromatica, dagli agrumi maturi alla pera) sono un’acidità totale e un’acidità percepita (il Ph) addirittura sorprendenti. Qui si sale di un piano (allo stesso prezzo della Passerina)
Rosso Piceno Doc Signator 2008 (50% Montepulciano, 50% Sangiovese): appena chiuso al naso, si scioglie poi in note fruttate sufficienti per qualità (anche al palato, che incontra con buon tatto vellutato). Qui fa legno il Montepulciano, e il Sangiovese vede quasi solo acciaio. Buon rapporto con il prezzo (7,50) e progresso ulteriore atteso per il 2009.
Rosso Piceno Superiore Nummaria 2008: (70% Montepucliano, 30% Sangiovese): realizzato con apporto da vigneti fuori confine aziendale, Montepulciano di 30 anni. Il vino è ancora duretto, parzialmente crudo, non del tutto espresso, e con una piccola nota vegetale, ma soprattutto con una pur sopportabilissima distonia gustativa dovuta a un legno in corso di turn over, che vela il frutto (ciiegia in primis) che pure si indovina qualitativo. Il confronto (ufficioso…) con il 2009 ancora per strada rende ragione a quel che accadrà da lì in avanti. Già potenzialmente buono, è dunque atteso a grandi progressi. (13 euro)
Marche Rosso Igt Nullius 2008 (Sangiovese 100%): poco da dire, c’è l’acidità giusta, e si sente la voglia di eleganza, e non di “massa”, che è la bandiera di chi conduce l’azienda. Ma il vino, in questa edizione, non è ancora risolto. La stoffa tesa del vitigno non risulta a mio parere sufficientemente e armonicamente tramata. Da attendere anch’esso, con fiducia, in progresso nelle successive edizioni (13 euro)
Marche Rosso Igt Musè (Montepuciano 100%) 2008: un buon carattere, un vino che convince, piace, si fa bere. In linguaggio “scattistico” sfiora il Secchio, e non lo centra solo per il leggero sentore di surmaturità di parte del frutto, che è comunque pieno, ciliegioso, con fondo di prugna e solidissimo accento in retrolfattiva, dopo un percorso in bocca convincente. Solo 7000 bottiglie, destinate a… svanire presto. Ma con margini chiari di ulteriore crescita per chi ne salverà un po’ in cantina (13 euro, ben spesi).