Vinitaly. Vini bianchi e terre nere per la nuova associazione Vulcania
Per ora la tinta del vino è unica: si va in bianco. Grazie al “nero”, però: quello del suolo di origine vulcanica che è la radice di questa pensata. Ma chissà come andrà in futuro. E se alla tavolozza non si aggiungerà, strada facendo, anche il rosso (inteso come vino).
La novità si chiama Vulcania: un’associazione nata dall’intesa tra il Consorzio del Soave (che ne è stato un po’ il primo motore, quello che ha fatto, o ha messo in bella per primo la pensata benedetta dal presidente Arturo Stocchetti e dinamizzata dal direttore Aldo Lorenzoni) e i Consorzi di Etna, Campi Flegrei, Gambellara, Bianco di Pitigliano (nella foto), Lessini Durello e Colli Euganei. Già una bella squadra, dunque. Cui altri player potrebbero aggiungersi. Perché il “filo” del vulcano sotto le radici accomuna ai prodi cominciatori un tot di altri territori (per tutti, e segnatamente per i romani: l’area castellana, tutto vulcano spento, grande per la vigna se sfruttato a dovere, come per i carciofi: provare per credere…). Intanto, il gruppo già formato, e che debutta ufficialmente oggi al Vinitaly, parte con un progetto di promozione su scala nazionale e internazionale dei bianchi italiani che hanno nella mineralità speciale che li accomuna, nella ricchezza di potassio e nella qualità drenante dei terreni da cui derivano, motivi di fratellanza, nella diversità, dimostrabili poi nel calice (e non solo sciorinando mappe geologiche).
E in Fiera, guarda un po’ i casi, Vulcania in questo start già non è sola.
Perché anche Confagricoltura, che ogni anno presenta qui una serie di degustazione a tema (i “Percorsi”), tra i tre scelti per il 2012 ha un “Figli di Vulcano” che parla chiaro. E che rilancia le ragioni profonde della scelta fatta da Vulcania.
Il fatto è che i rivolgimenti climatici in corso stanno cambiando (drammaticamente, direbbero gli americani) il modo di fare vino. Il riscaldamento, le precipitazioni intensissime ma di breve durata, e al contrario i frequenti e lunghi periodi siccitosi stanno rimescolando il mazzo dei territori predefiniti: che proprio sul mesoclima (il clima locale nel gergo dei metereologi) appuntavano un pezzo della loro identità e qualità. Se aggiungete a questo rebus l’esplosione perdurante del numero delle denominazioninostrane, otterrete un totale in cui assumono sempre più importanza quei fattori trasversali che, al di là dei fragili (e a volte un po’ fasulli) confini delle “Doc dell’assessore”, ma anche dei territori denominati più ampi, logici e tradizionali, funzionano da elementi di resistenza e di garanzia rispetto al poco prevedibile mutamento in corso.
Il vulcano (leggi: suolo speciale) è di certo uno di questi fattori. La quota, l’altimetria delle vigne (il secondo dei temi dei Percorsi di Confagri) è un altro. E il terzo individuato stavolta è il fattore mare, con triplo effetto (correnti di convezione, salinità, sabbie prevalenti).
Ma più dello stesso mazzetto messo insieme (altri elementi potrebbero ovviamente aggiungersi) vale il principio: trovare nuovi (o antichi) e saldi fattori identitari, dei “centri di gravità permanente” per vini destinati ad andare in giro per il mondo a cercare fortuna. Il bilancio ultimo tra export in crescita e consumi interni in forte flessione lo ribadisce. E, certamente, pare più facile promuovere all’estero un gruppo forte per qualità e composizione (e interessante per caratteri individuali e regionali differenti) presentabile come “italiani vulcanici” che la minuscola, e spesso incomunicabile, Doc Roccacannuccia. Con buona pace del locale assessore…