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26 Settembre 2012 Aggiornato il 7 Aprile 2019 alle ore 14:25

Pomì e gli altri. Di quale pomodoro c’è da fidarsi al supermercato?

. La mia famiglia, da quando ne ho memoria, prepara ogni estate la passata di pomodoro: la contrattazione al mercato, la lunga pulizia, la cottura nei
Pomì e gli altri. Di quale pomodoro c’è da fidarsi al supermercato?

[Quanti italiani producono a casa passate e pomodori pelati e quanti prelevano dagli scaffali di un supermercato e quale marca scelgono. Sicuro è lo sbilanciamento per la seconda modalità, l’acquisto, e se siete tra quelli che non hanno tempo per preparare i pomodori secondo la tradizionale ricetta delle bottiglie da calare nell’acqua che bolle, così ben illustrata da Gianni Ferramosca, dovete ricorrere a una marca. Luca Sessa, di Per un pugno di capperi, ha partecipato al contest della Pomì che qualche polemica ha sollevato su queste pagine. Ed è andato nel territorio di Pomì perché ha vinto con le Tagliatelle di amatriciana, cestino di pecorino e guanciale croccante. Ecco i suoi appunti di viaggio].

La mia famiglia, da quando ne ho memoria, prepara ogni estate la passata di pomodoro: la contrattazione al mercato, la lunga pulizia, la cottura nei bidoni in attesa dell’inevitabile “botto” per lo scoppio di una delle bottiglie. Con un background di questo tipo, ho avuto difficoltà ad avvicinarmi ai vari prodotti commerciali ma poi, un po’ per mancanza di tempo, un po’ per praticità, li ho utilizzati.

Pomì è un marchio che resta nella memoria, sarà perché breve e facile da ricordare, sarà per il fortunato slogan. Da bambini tutti abbiamo storpiato quella frase almeno una volta. Per me Pomì era l’azienda nell’accezione più classica del termine, un marchio una fabbrica. Ma ho scoperto che non è del tutto vero.

Essere ospitato a Parma (premio per la vittoria del loro contest) mi ha permesso di scoprire una realtà diversa, per certi versi rivoluzionaria: Pomì dal 2007 è uno degli elementi principali di una filiera corta poiché il Consorzio Casalasco del Pomodoro ha acquistato il marchio per ottimizzare la propria produzione. Una cooperativa di 300 aziende agricole (situate nel triangolo Parma-Cremona-Piacenza) nata nel 1977, che da anni lavorava il pomodoro per venderlo ai vari interlocutori (ad esempio la COOP), ma che nell’ultimo periodo aveva incontrato difficoltà nella valorizzazione del proprio prodotto. I giovani sono subentrati agli anziani (cambio generazionale tanto auspicato in altri ambiti del nostro paese) ed hanno deciso di comprare il marchio Pomì per essere riconoscibili ed avere la certezza di poter commercializzare il pomodoro.

Il potere al popolo? Gli agricoltori che diventano padroni del proprio destino? Un km0 di massa? Non saprei rispondere, ma posso dire con certezza che la visita guidata ad uno dei campi ha aperto uno scenario a me nuovo, relativo al moderno approccio nel “lavorare la terra”. Tutto viene analizzato, studiato ed ottimizzato per togliere spazio agli imprevisti della natura ed assicurare un pomodoro a “prova di bomba”. Si è deciso di puntare sulla tracciabilità di tutte le fasi. Ogni anno, tra dicembre e gennaio, l’azienda e gli agricoltori studiano un piano per decidere tutti gli aspetti delle circa 300 singole coltivazioni: quantità, ettari dedicati, tipo di pomodoro, semina, irrigazione, concimi. Si scelgono i semi giusti per ogni terreno, il periodo per la semina (da aprile a giugno), l’irrigazione adatta (il metodo a goccia ha ormai sostituito l’aspersione). I semi dati al vivaista che fa li fa crescere, il vivaista che consegna le piantine agli agricoltori che le seminano, le piantine che crescono per circa 90 giorni per poi essere colte: dal seme al brick in 4 mesi.

I 4.000-4.500 ettari complessivi vengono analizzati, a rotazione, ogni 5 anni dal reparto agronomico, per valutarne lo stato di salute e decidere eventuali azioni. Tutto è programmato in modo da permettere ad ogni singolo coltivatore per poter produrre al meglio. E poi la raccolta, la fase (un tempo) più faticosa ma anche (allora) la più romantica: il giovane proprietario del terreno ci ha parlato di questa miracolosa macchina che in tempi brevi lavora tutte le piantine, le solleva, le taglia, le scuote; poi un lettore ottico scarta i pomodori “cattivi”. Solo a questo punto torna protagonista l’uomo che ha il compito di eliminare eventuali residui (sassi, fango, ecc.). Lo stesso campo (parole del giovane “azionista Pomì”) un tempo veniva lavorato da 20 donne per 60 giorni.

Non avevo mai visitato un campo dedicato alla coltivazione massiva, e pur non volendo passare per ingenuo (mi aspettavo comunque una sfrenata meccanizzazione), devo ammettere che non immaginavo una tale metodicità. Questi giovani agricoltori hanno un aspetto diverso, faccia (e vestiti) puliti, e tanta intraprendenza. Ma nonostante gli imprevisti della natura poi si presentino comunque, come la lunga estate calda che ha comportato non poche difficoltà nella maturazione dei pomodori (difatti il campo ne aveva un po’ di colore verde), il nostro giovane cicerone, con gli occhi che brillavano, si è detto molto soddisfatto del “rapporto” con Pomì.

Il Consorzio ha aperto una nuova strada imprenditoriale? Può darsi. La passata Pomì è più buona delle altre? Per quanto ho potuto constatare dal vivo, la decantata freschezza sembra reale.  A me, questo viaggio nell’agricoltura moderna, ha fatto venire in mente il ruolo cruciale che avevo da piccolo: mettere le foglie di basilico in ogni bottiglia di pomodoro.

E voi, avete una preferenza quando siete davanti a uno scaffale del supermercato per acquistare gli ingredienti necessari alle tagliatelle all’amatriciana?

[Luca Sessa]

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