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Vino
31 Dicembre 2010 Aggiornato il 6 Aprile 2019 alle ore 19:43

I buoni propositi del vino per il 2011

Tra le cose che vorrei veder sparire insieme ai calendari 2010 c'è un certo modo di intendere la comunicazione del vino che, nell'Italia di questo tempo
I buoni propositi del vino per il 2011

Paolo-Trimani-q

Tra le cose che vorrei veder sparire insieme ai calendari 2010 c’è un certo modo di intendere la comunicazione del vino che, nell’Italia di questo tempo poco brillante, non stupisce ma resta insopportabile.

Qualche esempio? Generalizzando: produttori di vino che reagiscono in maniera stizzita (eufemismo) quando non vengono celebrati come discendenti in linea diretta da Bacco; giornalisti (ma di quale ordine?) presuntuosi e permalosi, insofferenti a loro volta di ogni critica; operatori (io per primo) poco aggiornati e preparati. Continuo o sono riuscito a rendere l’idea?

Il panorama che ci si presenta davanti è, francamente, desolante. La tribù è l’unica entità associativa che guidi parole (tante) idee (pochine) comportamenti di troppe persone che fanno riferimento al vino nei modi più diversi. L’italico familismo amorale si declina in “todos caballeros” per gli amici, in critiche ossessive per gli estranei e in condanne inappellabili (e ingiustificate) per i “nemici”.

L’ho premesso, sto generalizzando perché solo guardando la scenario nel suo complesso, rinunciando ai particolari, si riesce a inquadrare i fenomeni più vistosi, quelli da modificare per primi!

Secondo me nessuno è infallibile, quando si parla di vino poi… Partendo da questo assunto è possibile concordare un metodo per innovare abbandonando comportamenti tanto diffusi quanto deleteri. Ognuno avrà le sue priorità e ci vorranno molto impegno e tanto tempo per cambiare veramente certe abitudini, ma occorre iniziare al più presto anche perché il mondo non aspetta e continua a girare sempre più veloce.

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L’esplosione delle economie emergenti ci apre orizzonti sterminati per conquistare nuovi consumatori ma, e mi limito al vino, continuiamo a perderci in discorsi del grappino (o peggio, da convegno cioè anche senza grappino) invece di mettere a fuoco alcuni elementi cruciali per il nostro successo. Il campanile non può essere più importante del sistema-paese, la concorrenza tra aziende deve risultare nell’accresciuta capacità di tutti a competere, il valore immateriale dell’Italia deve diventare bene comune di tutti. Proprio quest’ultimo aspetto riassume il disastroso spreco di occasioni che, soprattutto all’estero, contraddistingue le nostre “missioni commerciali” (sic). Abbiamo la possibilità di costruire legami autentici tra il più grande patrimonio artistico del mondo e la storia più minuta che si articola tra vigne, persone e vini. Ma i pochi esempi virtuosi sono spesso casuali e sempre scoordinati.

Se non convinceremo presto consumatori brasiliani, indiani, cinesi a venirci a trovare e a consumare i nostri prodotti a casa loro imboccheremo una china pericolosa. Il vantaggio del primo entrante è enorme, il caso dei Rothschild di Lafite è emblematico: primi a investire in Cina e premiati con quotazioni stellari per tutti i loro – ottimi – vini. Chiaramente i prezzi a 4 cifre sono riservati a pochissimi vini leggendari, ma il loro effetto traino è impressionante duraturo e imprescindibile per i comuni mortali.

A leggere quello che si scrive in italiano sul vino si potrebbe pensare che queste cose siano molto meno importanti dell’egolatria di primedonne isteriche o delle invenzioni della ruota propinate da opachi sedicenti esperti. E sono solo un paio di esempi generici. La situazione è grave ma non è seria. Flaiano ai suoi tempi parlava della politica italiana, ma il suo aforisma si applica perfettamente al mondo del vino contemporaneo.

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