La grande tradizione è ragione del viaggio da Bottura a Modena
-Svoltare a destra.- dice la voce con gentilezza. -Prego, svoltare a destra.- insiste con una punta di irritazione. -Se è possibile, effettuare inversione a u.- conclude lapidaria. A destra c’era un muro, e l’inversione a u non è un’ipotesi contemplabile in uno stradello largo forse quattro metri, che al momento della costruzione sarà sembrato ampio e moderno, ma si trattava del basso medioevo, e al più là ci giravano i carretti. Gettiamo la spugna: Modena, il centro di Modena non è fatto per i navigatori satellitari. C’è qualcosa che li fa saltare… L’evidenza dei fatti, semmai ce ne fosse stato bisogno, ci colpisce un secondo più tardi, quando ci ritroviamo in piena area pedonale, bloccati da catene di metallo che delimitano aree ancor più pedonali e muri umani che ci impediscono anche solo di capire dove sia l’uscita di questo casino che comincia ad assomigliare a un set di Charlton Heston versione biblica, passaggio nel mar rosso e corsa delle bighe compresi.
A pochi passi da noi si apre un capannello di gente e appaiono due o tre vigili urbani… -Siamo fatti.- ci scappa di bocca. Non c’è dubbio. Siamo definitivamente fatti. Ci tolgono la patente, ci arrestano, e ci sequestrano la macchina. A tutti, e non necessariamente in quest’ordine. Sono vigilesse. Prima che si avvicinino troppo mandiamo fuori il più giovane di noi a contrattare una resa onorevole, e qui avviene il miracolo: il connubio tra aria da bravo ragazzo, accento morbido della trasferta brasiliana, bell’aspetto e sorriso ci fa uscire indenni. Il ragazzo venuto dal Brasile ci ha salvato il culo!
Tre minuti dopo, in albergo la decisione è pressoché unanime: aperitivo… Molliamo il quinto passeggero ad aspettare il resto dei partecipanti alla cena di questa sera, e usciamo in quattro.
Perché questo viaggio ha uno scopo e una meta: La Francescana di Massimo Bottura. E parlando di Modena non poteva che essere questa, ma lo scopo è più difficile da indovinare, perché non è una serata qualsiasi, nessuno sceglierà alla carta. Stasera va in scena la tradizione. La tradizione secondo Massimo, certo.
Intanto, sono le cinque e mezza e abbiamo una fame della miseria. Per prepararci adeguatamente non abbiamo quasi pranzato. L’Osteria Giusti è il nostro posto.
A piedi stavolta, riattraversiamo vie e piazze sempre più gremite di gente per lo struscio del sabato in un freddo che a noi romani pare innaturale, davanti a negozi anche qui vuoti come a Roma, fino ai portici. I portici sono una bella invenzione che lascia sempre un po’ stupito il mio lato meridionale, e deve riguardare più il gelo e la pioggia invernali che l’afa estiva, altrimenti li avremmo anche noi. E sotto i portici senza alcun preavviso mi trovo a fissare una delle più belle vetrine di gastronomia che abbia mai visto. Legno scurito dal tempo a incorniciare cristalli scintillanti, e marmo chiaro oltre. In mezzo, tortellini certo, ma in più tutto quanto c’è di buono si possa immaginare. Lo spazio non è molto, ma è sufficiente. Questo è Giusti. Avevamo anche noi dei posti del genere in centro. Alcuni vendevano salumi, altri bretelle, cinture e biancheria rigorosamente da uomo, adesso nella migliore delle ipotesi vi rifilano un posacenere griffato con un elefante o un cavallo. I russi non notano la differenza, e forse sono pure più contenti.
Accanto alla gastronomia Giusti c’è l’osteria. Fuori bracieri e tavolini alti con gli sgabelli, ma li lasciamo volentieri ai modenesi che sono abituati, e aspettiamo il nostro turno dentro, al bancone, al caldo. Anche qui legno scuro e cristalli, stavolta sotto forma di bicchieri da degustazione, e bottiglie, belle bottiglie che riempiono le scaffalature fino al soffitto. E’ davvero un gran posto, e ci resterei volentieri un paio d’ore a fare fuori qualche etichetta, ma gli improbabili nachos che ci portano per accompagnare lo champagne che ordiniamo ce lo impediscono (che diamine, con tutto quello che c’hanno proprio loro a due metri, non dico le alici del cantabrico perché qui a Modena chi se ne frega, ma un po’ di culatello ce lo volete dare?).
Alle sette meno un quarto suoniamo alla porta della Francescana. Abbiamo un’ora prima che arrivino gli altri, e decidiamo di partire col piede giusto: Winston Churchill Pol Roger 96, e qui finalmente i salumi modenesi che ci aspettavamo, più i lunghissimi grissini fatti a mano, che basterebbero già da soli a intrattenerci per un po’.
Quando poi ci sediamo nella saletta tutti e otto, e arriva Massimo a raccontarci cosa mangeremo abbiamo la sensazione che sarà una serata grandiosa. Lunga e grandiosa. Ed è proprio così.
Con un residuo di Wiston Churchill ancora nel bicchiere capisco che il salame di poco fa è solo un piccolo saggio del continuo lavoro di ricerca e difesa dei prodotti locali che si fa qui, dal parmigiano delle vacche bianche che altrimenti si sarebbe perso, al culatello e alla pancetta che per arrivarmi nel piatto hanno affrontato l’equivalente del nido e della scuola materna. Al balsamico di Modena, vecchio non so nemmeno di quante decine di anni, che a fine serata assaggeremo nella cantina ingombra di cassette di vino dietro all’ingresso del ristorante.
Le facce contente e rilassate che ho intorno riflettono la mia. La lasagna è semplicemente la madre di tutte le lasagne, con una meravigliosa crema al parmigiano al posto della bechamelle che ha funestato l’infanzia di quasi noi tutti. I tortellini alla super panna sono anche quelli una sublimazione di un classico (autostradale ma classico), e sono strepitosi. Se non li bissiamo è solo perché non sono certo la prima portata, e ce ne aspettano molte altre, anche se una delle nuove leve ne chiede ancora con un tale candore da meritarsi una gita in cucina!
Sono quasi le due, o forse oltre, quando ci decidiamo a levare le tende e a permettere alla fine a Bottura e ai suoi di staccare. L’aria è sempre più fredda, e ha già quel sentore di neve della bufera che domani mi coglierà in pieno, davanti alla stazione di Bologna con i tacchi alti alla rincorsa di un treno che mi riporti indietro.
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