La Stella Michelin di Pier Giorgio Parini brilla di luce locale a Torriana
“Io non mi sono mai mosso da qui”, dice il ragazzo. “Sono di queste parti, e il mio percorso l’ho fatto tutto qui”, continua, rispondendo alla domanda che quasi non mi sono accorta di avergli fatto.
Sorride, e la sua faccia sembra più piccola dei trent’anni che dopo tutto deve avere anche lui. Mi chiedo se non mi prenda un po’ in giro, o se non stia un po’ esagerando come talvolta si fa senza neanche rendersene conto, solo per dare più forza a un discorso, ma sembra assolutamente serio e pacato. Il suo stesso modo di parlare sembra alieno da assolutismi o dogmi. Sta semplicemente enunciando un dato di fatto.
E perché no? Mi chiedo. Un percorso, una strada, non devono per forza essere uguali a un altro. La conoscenza può arrivare attraverso la sperimentazione di luoghi e realtà diverse, ma cosa dovrebbe vietare che la sperimentazione stessa sia fatta invece nel territorio in cui si è nati e cresciuti senza allontarsene mai, e osservando con attenzione ogni più piccolo particolare, ogni foglia, frutto o filo d’erba in una manciata di chilometri?
Perché i tuoi piatti sembrano così dannatamente moderni e contemporanei, nel senso migliore, ecco perché. Mi dico, mentre mangio le mazzancolle crude con il cavolo nero e le erbe aromatiche, badando che ogni assaggio sia assolutamente composito all’inizio, e assaporando poi ogni singolo elemento da solo, per poi chiudere riunendo tutto in un ultimo boccone. Ma sto zitta e decido di fidarmi. E se poi dovessi scoprire che non è così, pazienza.
Torriana è un buco cecato, parliamoci chiaro. Lo sono anche moltissimi altri posti in cui ci sono ristoranti grandissimi, è vero, ma poi si scopre che gli chef hanno girato in lungo e largo. Lui no. Pier Giorgio Parini del Povero Diavolo, l’unica trasferta che confessa (in questo momento) è la riviera adriatica, Rimini credo, per qualche tempo.
Non Nobu (il Nobu di prima delle filiazioni ripetute e inutili) che è quello che mi è venuto in mente quando è arrivato in tavola il primo piatto di questa serata: insalata al cetriolo, finocchio con maionese al dragoncello. Non parlo esattamente dei sapori, quanto piuttosto di un’eleganza negli accostamenti, anche cromatica, di un’essenzialità che esalta la materia prima e la capacità di utilizzarla, di un’armonia di fondo in tutte le preparazioni e le presentazioni, che rimandano quasi alla cerimonia del tè, o quantomeno all’idea che me ne sono fatta. Parlo però anche di sostanza (soprattutto di sostanza!) non solo di forma.
E di spontaneità. Tutto scivola con una naturalezza priva di artifici, seduti davanti al fratino, vicino al fuoco, siamo lontani anni luce da quelle tavole e quelle cucine patinate che potremmo trovare altrove. Certo, è possibile che nell’epoca di internet e delle ricette d’autore abbia avuto anche lui le sue belle suggestioni, che nell’uso delle erbe (le animelle con la salsa di angelica!) e dei fiori, o delle polveri di tè o liquerizia ci sia qualche rimando, ma nei suoi racconti non ce n’è traccia. Parla dei fornitori, di quello che c’è qui intorno, della gente, dei piccioni che arrivano da dietro l’angolo e che mangeremo domani, delle verdure di qua. E mentre finisco l’insalata di rape capisco cosa vuol dire, anche se fino a questo momento le rape non mi erano mai piaciute.
Parla anche di una che si è messa a coltivare frutti praticamente estinti sulla montagna qui dietro (le giuggiole di una straordinaria carota arrosto con tonno disidratato credo siano sue), una studiosa. Quasi una forestiera, della cui utopia romantica racconta con rispetto, e una punta di distanza, anche se io vedo più di qualche punto di contatto, forse, a causa del riso in bianco di questa sera, o della crema di limone con liquerizia, insospettabilmente complessi e struggenti.
Perché un’ispirazione può venir fuori anche da questo, dal ricordo di una giornata di febbre infantile, o dalla semplicità di una cagliata.