I 7 cibi che il mondo dovrebbe invidiarci dopo il Salone del Gusto
Invidia no, meglio ammirazione. Sono i cibi che dal Salone del Gusto rinforzeranno ancora di più l’immagine dell’Italia.
Messaggeri di quel modo di vivere mangiando bene che è una delle due gambe su cui dovrebbe camminare, correre, il nostro Paese. L’altra è il turismo. Lo ripetono tutti come un mantra.
La manifestazione di Torino ha fatto il punto della situazione con i numeri. Quelli dei visitatori in linea con l’edizione 2012 a quota 220 mila anche grazie all’exploit del pomeriggio di lunedì che ha compensato i cali serali stimati in un -2,5% rispetto all’edizione precedente.
Cambia, però, il pubblico con un maggiore afflusso di giovani e stranieri e un minore interesse di Torinesi e Piemontesi. E si registra la percezione di un calo di vendite per i piccoli produttori compensato dal maggiore interesse dei buyer internazionali.
Carlo Petrini ha già indicato la linea dell’edizione 2016: il Salone del Gusto deve internazionalizzarsi fino a diventare la più grande manifestazione dedicata al cibo a livello mondiale.
Significa che il cibo buono, pulito e giusto deve diventare ambasciatore della produzione italiana e attirare gli stranieri.
Individuare i messaggeri di questa idea di internazionalizzazione diventa l’attività principale anche per sfruttare al meglio l’occasione dell’Expo 2015 che rischia, è lo stesso Petrini a ricordarlo agli organizzatori, di diventare “un’esposizione senz’anima”.
Bisogna intendersi sul valore da attribuire ai messaggeri, ma puntare su eccellenze gastronomiche dall’immediato valore comunicativo, semplici e genuine, è una delle strade da seguire per dare corpo a una condivisione del cibo italiano con chi non ne conosce il significato e tutte le implicazioni della produzione.
Cibo comunicativo nella sua forma migliore, che fa emozionare e restituisce la migliore immagine dell’Italia. Quale o quali potrebbero essere?
1. Parmigiano Reggiano
Il Parmigiano Reggiano ha fatto comprendere la capacità dell’Italia da risollevarsi da situazioni di pericolo e di distruzione come il terremoto che ha mandato il giro le immagini delle scalere cadute a terra con il loro prezioso carico. Guardare avanti con determinazione. Come ha fatto il Caseificio 4 Madonne che è diventato uno dei simboli del sostegno offerto dai tanti che hanno acquistato il “parmigiano caduto”.
2. Pesto genovese
Roberto Panizza, produttore di pesto genovese con il marchio Pesto Rossi, ha visto le sue cinque aziende di cui quattro aperte negli ultimi quattro anni sotto l’acqua e il fango dell’alluvione che ha colpito Genova. E non è la prima volta visto che è accaduto anche nel 2011. Il pesto come simbolo di trasformazione dell’identità di un luogo può essere un messaggio altrettanto forte.
3. Pasta
Niko Romito ha spiegato l’assoluto con paste E pomodoro allo stand della Garofalo. Per lui un è già attivo posto d’onore nel processo di internazionalizzazione e di modernizzazione del messaggio del cibo grazie al progetto Unforketable. Possiamo solo aggiungere la definitiva affermazione che l’industria italiana deve essere partecipe dei processi di conoscenza e internazionalizzazione. Il valore della serialità non può essere inteso come un disvalore a prescindere. Ripetersi è bello se fatto molto bene.
4. Aceto Balsamico
Per assonanza di chef e di tre stelle Michelin, che sono l’equivalente del messaggero alato degli dei, l’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena richiama alla mente il nostro paladino dell’Italia nel Mondo. Quel Massimo Bottura che ha saputo conquistare prestigiosi riconoscimenti e il terzo posto nella discussa 50 The Best che resta però uno degli indicatori della capacità di saper condividere e attirare consensi. Senza contare iniziative Pop come l’hamburger a NYC o il suo nuovo libro che diventerà il vangelo per molti. Per restare in tema di prodotto, l’Acetaia del Cristo con i suoi Tradizionali ed Extravecchi ha saputo incantare un gruppo di francesi rapiti da profumi, sapori e spiegazioni. Un esempio da tenere a mente.
5. Mozzarella di Bufala
Pur nella congerie di errori e incomprensioni all’interno dello stesso Consorzio di Tutela della Mozzarella di Bufala Campana Dop, che ha dovuto difendersi dalla norma del doppio stabilimento proposta a seguito dell’idea interna di un prodotto “congelato” per favorire l’internazionalizzazione, il latticino del Sud resta l’oro bianco di un possibile scambio culturale con gli stranieri. Farli arrivare nelle terre di produzione è la vera scommessa di un prodotto che gira molto ma che non riesce ad attrarre come la sua fama meriterebbe. E anzi la produzione in altri luoghi non Dop conferma che la tutela del marchio non è tutto. Serve anche la logistica oltre che le capacità di un Mimmo La Vecchia di produrre e di una Rosanna Marziale di inventare piatti.
6. Pizza
La pizza è un grande vettore di interesse. Popolare a Napoli, ricercato o gourmet al Nord soprattutto nell’accezione del prezzo, parla da solo un linguaggio universale. Pizza è parola non tradotta proprio come Champagne, prodotto bandiera che tutti vorrebbero in dispensa, ma è anche dilaniata da guerre intestine a enti, associazioni, manifestazioni, interessi di visibilità e rischia di trasmettere il messaggio sbagliato della scarsa qualità. Ma se c’è la pizzeria americana che si inventa la nascita a Chicago ad opera di americani che avrebbero guardato al pane e pomodoro degli immigrati napoletani o ci sono catene italiane come Rossopomodoro che conta 150 punti vendita in giro per il mondo o ci sono artigiani come Enzo Coccia e Gino Sorbillo che sono nuove icone del cibo per gli stranieri, forse varrebbe puntare una fiche poderosa per la sua promozione. Pizza e basta, dove basta significa buona.
7. Mortadella Bolognese
Egualmente Pop è la mortadella che può richiamarci a una tradizione contadina fatta di cose semplici e genuine ma che può e deve essere contemporanea con un linguaggio come quello adottato da Panino a Modena. E c’è il richiamo a quel bolognese che fa giustizia dei terrificanti spaghetti su cui ci si potrà anche giocare e farli benissimo per smontare il messaggio di non appartenenza alla tradizione italiana, ma resta sempre una superfetazione che spiega solo l’incapacità di dare un taglio ad errori del passato. Come i bagni appiccicati sui terrazzi quando si smise di andare per campi.
Ecco: sette cibi come le sette virtù che l’Italia dovrebbe mettere in campo.
O le sette vite del gatto che fanno il paio con la nostra presunzione di essere sempre i più forti.
O le proverbiali sette camicie da sudare per raggiungere l’obiettivo.
Ma se volete cambiare numero, e cibo, fatelo pure.