I ristoranti non sono solo delivery o asporto. Come sappiamo da quando il Covid ce li ha portati via
Il lockdown causato dal coronavirus ci ha portato via per mesi i nostri ristoranti del cuore. Alcuni, li abbiamo ritrovati. Altri, non riapriranno più. E con loro, non se ne sarà andato soltanto un luogo dove riempirsi lo stomaco, ma un pezzo delle nostre abitudini, delle nostre esperienze e, in fondo, della nostra vita. Per ricordarci l’importanza dei ristoranti, che non sono solo delivery o asporto, il New York Times ha chiesto a 3 noti critici gastronomici di raccontare le loro esperienze più memorabili.
Il risultato è divertente, dolce, perfino struggente. E mette voglia di prendere il telefono per prenotare un tavolo prima possibile.
I ristoranti non sono solo delivery o asporto: “I nostri nuovi amici” di Ruth Reichl
Mio figlio Nick, di 8 anni, era davvero stanco di viaggiare per il mondo. Quando siamo arrivati a Parigi, la nostra ultima tappa, tutto quello che voleva era tornarsene a casa, rivedere i suoi amici, nutrirsi del cibo di casa. Io invece ero al settimo cielo per essere finalmente riuscita a prenotare un tavolo al ristorante “L’Ami Louis”, dove da anni desideravo andare senza mai esserci riuscita. A Nick, invece, non importava niente del ristorante di grido, e così a mio marito, Michael. Il suo commento non lasciva dubbi su cosa pensasse al riguardo: “Eccoci di nuovo a strapagare un pasto francese”. Per lui, era come addentrarsi né più né meno che all’inferno. Ad ogni modo, li ho trascinati tutti e due al ristornate, padre e figlio.
E che ristorante! L’Ami Louis è un locale aperto nel 1924, che si è opposto a ogni cambiamento che gli desse un aspetto più al passo con in tempi. Persino i camerieri sembrano risalire al lontano 1924. E ora, finalmente c’eravamo anche noi.
Appena entrati, oltre al profumo di quercia che si spandeva per l’aria, Nick vede passargli davanti al naso un mucchio di patatine fritte in bella mostra dentro un vassoio. “Beh, potrebbe essere ok, qui”, mi disse guardandosi attorno. Il cameriere lo notò, lo studio un attimo e scomparve, per poi riapparire con un enorme piatto di patate fritte e un bicchiere di succo d’arancia appena spremuto. “Sembri affamato!”, gli disse, posando sul tavolo davanti ai suoi occhi esterrefatti quel trionfo di patatine fritte. “Sì, penso proprio che mi piacerà, qui”, annunciò Nick, in visibilio. Nel frattempo, Michael mi indico una coppia seduta, con un bambino dell’età di Nick. “Ma non è Carol Bouquet, l’attrice?”, mi chiese. “Sì, potrebbe, la gente del cinema adora questo posto”, risposi io. “E anche io!” mi fece eco Nick ficcandosi un’altra patatina in bocca.
Nel frattempo, il cameriere arrivò con un piatto di lumache sfrigolanti, lasciando una celestiale scia che sapeva di aglio e di burro. Dopo aver posato il piatto sul tavolo, sussurrò qualcosa all’orecchio di Nick. Gli fece un cenno con il dito e il secondo dopo, lui e il figlio della presunta Carole Bouquet, corsero fuori assieme. “Non si preoccupi, signora, è solo l’intrattenitore dei bambini del vicinato”, ci informò. Non lo vedemmo più fino a quando il cameriere se ne arrivò con un’intera torta al cioccolato. Era arrivata dopo che noi avevamo appena finito di mangiarci un bel pollo grassoccio con una deliziosa e croccante pellicina. I bambini, intanto, facevano festa alla torta, mangiando e ridendo. Eccoli, erano già diventati grandi amici, mentre noi sorseggiavamo Cognac passeggiando da un tavolo all’altro e stringendo amicizia con gli altri clienti.
Insomma, nel ristorante si era creata miracolosamente l’atmosfera di una cena tra vecchi amici. Era tardi, quella sera, quando tornammo in albergo. “Quello sì che era davvero un ottimo ristorante”, mi disse mio figlio.
“Ma se tutto quello che hai fatto è stato ingozzarti di patatine e di torta al cioccolato!”, dissi io. “Ma dai, mamma –fu la sua risposta– lo sai bene anche tu che i ristoranti non hanno davvero a che fare con il cibo. Possiamo tornarci domani?”.
Ruth Reichl è una giornalista americana già critica gastronomica del New York Times e direttrice di Gourmet magazine.
I ristoranti non sono solo delivery o asporto: “Ordina il menù” di Bill Buford
Per cinque anni ho vissuto con la mia famiglia a Lione, in Francia. E, per cinque anni, abbiamo regolarmente mangiato nei numerosi bouchon della città. Cosa è un bouchon? Beh, i bouchon lionesi sono locali tipici unici nel loro genere. Tovaglie a quadri bianchi e rossi, mobili e tavoli in legno, pentole di rame appese ai muri e poi, rumori, odori, cibo, profumi, risa, divertimento e convivialità. Posti dove la gente sembra perdere le inibizioni appena varcata la soglia, lasciando fuori l’aria riservata e discreta del lionese tipico. Nei bouchon si mangia e si beve senza inibizioni, si parla con gli sconosciuti del tavolo vicino, si suda, si grida e si ride. Si ride forte. E si sta bene.
In una piovosa notte invernale, durante il primo anno in cui io e mia moglie ci eravamo trasferiti a Lione, e lei era a Londra, mi sono organizzato con una baby sitter che badasse ai pargoli. Poi sono andato da solo in uno dei miei bouchon preferiti, il Café Comptoir Abel. Abel serve cibo dal 1726, è formato da varie stanze disposte su due piani, ognuna con il soffitto basso e un camino. Mi sono seduto, ho chiesto una bottiglia di Beaujolais poi ho ordinato dal menu scritto su una lavagna.
Attorno a me, tavolate di gente più che affamata, vorace: una famiglia di otto persone, quattro donne manager in libera uscita e una comitiva di dieci persone, coppie, single. Di tutto, e tutti affamati. Poco dopo, sono arrivati i piatti. Un trionfo di cibo fatto di foie gras e carciofi, seguito dal piatto principale. Cioè vari polli, rognoni, un sanguinaccio che qui chiamano boudin noir, vino, delle quenelles fatte con pesce di lago locale, animelle, trippa. E ancora formaggio, tra cui il Saint-Marcellin, un simil-brie amatissimo dai lionesi, di nuovo vino, dolci, tra cui una superba crostata di mele, dei babà al rhum, del fondant al cioccolato e un liquore per il dopo cena prodotto dai monaci di Chartreuse. Un mare di roba.
Bene, tutti hanno mangiato tutto. Tutto. “Ma come diavolo fanno a mangiare così?”, mi sono chiesto.
Io mangio tanto. Ma davvero, non sono riuscito a mangiare tutta quella roba. Eppure, nessuno, né clienti, né personale, era in sovrappeso, tutti anzi erano decisamente magri. Nonostante questo, posso dire che nessuno riesce a mangiare con più piacere, più abbandono e più gusto di questi magri lionesi! Un tempo, i nutrizionisti descrivevano questo singolare fenomeno come “il paradosso francese”. Ovvero la capacità di ingurgitare dosi notevoli di cibi ricchi di grassi animali ottura-arterie e non risentirne affatto. La soluzione a questo dilemma è in realtà semplicissima e sta nel fatto che i francesi, per quanto sia ricca la loro cucina tipica, nel quotidiano mangiano come tutti gli altri. Vale a dire a casa: acquistano il cibo al mercato, lo cucinano a casa, mangiano e rigoveranano come tutti noi.
A pranzo mangiano cibi più consistenti, a fine pasto chiudono con latticini o prodotti caseari, come formaggio e yogurt, la sera magari un po’ di prosciutto con insalata, una frittata e soprattutto zuppe, retaggio della vecchia e sana abitudine di non sprecare nulla, come per il brodo ricavato dalle ossa di pollo. Ma quello che fanno è cucinare per la propria famiglia, come tutti gli altri. Insomma, gente normale, come tutti. Eppure, sono diversi da noi: per loro andare al ristorante è un momento importante durante il mese.
Ciò che ho provato quella notte, mentre mangiavo da solo da Abel, una sorta di brivido euforico che pareva illuminasse ogni commensale lì dentro, era un sentimento di privilegio, tra i tanti altri privilegi della vita. Quello di vedersi servito del cibo che qualcun altro aveva preparato perché noi lo potessimo gradire.
Ed è forse per questo che nessuno ha avanzato nulla di quanto servito.
Bill Buford è uno scrittore americano autore di bestseller gastronomici quali “Calore, le avventure da apprendista di un macellaio toscano che recita Dante”
I ristoranti non sono solo delivery o asporto: “La cena domenicale” di Adam Platt
Quando io e i miei affamati fratelli eravamo in quel periodo dell’adolescenza in cui si mangerebbe tutto il tempo, mio padre, che all’epoca lavorava per l’ufficio Affari Esteri degli Stati Uniti, considerava importante portarci nei ristoranti di luoghi lontani da New York. Il posto in cui eravamo cresciuti.
Tutti e due i nostri genitori vedevano i ristoranti come una sorta di finestra aperta su svariate civiltà e culture, e nello stesso tempo volevano avere un luogo normale per le colazioni informali o per i pasti della domenica.
Così, mentre ce ne andavamo da un posto all’altro, diventavamo clienti abituali dei locali che servivano i dim sum (ravioli) a Hong Kong. Dei negozi di yakitori di Tokyo. Di quelli dei dumpling assortiti e di anatra alla pechinese che gravitavano attorno a Pechino, dove vivevamo negli anni ’70.
Il primo di tutta questa parata di locali che la famiglia Platt ha visitato fu un barbecue mongolo alla periferia di Taichung, una piccola città sulla costa occidentale di Taiwan. I miei genitori vi si erano trasferiti negli anni ’60 per studiare il cinese mandarino. A quei tempi, Taiwan era invasa da cuochi e ristoratori che avevano perso le loro forme di sostentamento dopo la rivoluzione di Mao, il paese era tutto un brulicare sia di cucina cinese regionale classica che di cucina innovativa.
Il barbecue mongolo è stato il primo ristorante che ho visitato, e ricordo le nostre cene di famiglia lì, allo stesso modo in cui un appassionato di teatro ricorda lo sfarzo e la meraviglia di quel primo spettacolo di Broadway. Vivevamo in una vecchia casa giapponese nella periferia della città e, alla sera, andavamo in macchina verso il nostro barbecue preferito attraverso ampie risaie e campi di canna da zucchero. Ho saputo che adesso tutti i barbecue mongoli a Taiwan lavorano con forni a gas, ma in quei tempi, i grandi bracieri erano riscaldati con legna e carbone. Mentre ti avvicinavi potevi sentire l’odore di fumo del legno nell’aria e il dolce, invitante profumo di agnello, pollo e manzo che si arrostiscono, come succede a volte nei grandi vecchi barbecue degli Stati Uniti.
Come per tutti i clienti abituali, anche noi abbiamo avuto i nostri piccoli rituali al barbecue mongolo, che, come sanno tutti gli intenditori del genere, è una sorta di pasto a buffet che prevede la scelta delle proprie pietanze tra una gran varietà di carne marinata, verdure e salse, mentre si osservano i cuochi che grigliano le vivande tra nuvole di fumo e vapore. Lì ho assaggiato per la prima volta lo scalogno fresco, e i cibi conditi con il coriandolo, che ancora oggi associo nella mia mente a quei tempi così lontani, là, a Taiwan. Come in una sorta di piccolo ricordo Proustiano.
Lì ho mangiato l’agnello marinato in soia e zucchero, e quadratini di manzo sfrigolante che gustavo tra grandi panini appena fatti, caldi di forno e spolverizzati con semi di sesamo.
Dato che, nella mia mente, era sempre estate al nostro barbecue mongolo, cenavamo comunque fuori, seduti ai grandi tavoli comuni sistemati sotto gli alberi. I miei genitori bevevano birra e noi bevande frizzanti. Se per caso avevamo ancora fame, potevamo tornare al bancone del buffet per un’altra porzione di shao bing e un’altra ciotola o due di misto barbecue. Quando faceva buio, suoni di grilli e rane riempivano l’aria e si vedevano le lucciole che danzavano, in alto tra gli alberi. Poi, finita la cena, in una specie di gran finale, io e i miei fratelli scartavamo i pacchetti di petardi, che avevamo acquistato al mattino, li mettevamo dentro alle bottiglie vuote e li sparavamo in alto sopra le risaie, nel cielo della sera.
No, decisamente, i ristoranti non sono solo delivery o asporto.
Adam Platt è uno scrittore americano nonché critico gastronomico del New York Magazine
[Immagini: Sydney’s “Taylor” Made Cuisine]