Difendere la guida dei vini dalla smania della top 50
Di cosa parliamo quando parliamo di vino?
Questa domanda mi gira nella mente da qualche giorno. Per questo pur facendole e credendo fermamente nella validità delle guide dei vini, nella loro capacità in questi anni di rivoluzionare (nel bene e nel male) il mercato del vino italiano, di portarlo alla ribalta che meritava all’estero, non più solo vino da battaglia ma marchio ambito e ricercato, mi sono sottratto alla litania dei premi, delle regioni, dell’attesa dell’avvento.
Però ora a bocce ferme non posso fare a meno di notare che c’è la solita sindrome delle classifiche, si guardano solo le posizioni apicali: tre bicchieri, eccellenze, chiocciole, corone e quelchevolete. Ogni anno trepidanti a scoprire se il Poggio di Sotto sarà meglio di Biondi Santi, se Monfortino è più buono di Ca’ Morisso. Il lavoro di redattori e di migliaia di assaggi ridotto e svilito ad un campionato di qualche centinaia di etichette. Qualcuno ha giustamente pensato a questo punto, che fosse fatica eccessiva e che tanto valeva fare una classifica dei cinquanta vini migliori. E l’ha fatta anche bene.
Girando per cantine, parlando con enotecari amici, interrogando produttori compiacenti, si scopre che quel campionato di etichette alte o altissimi, è quello più in crisi. Che le cantine stanno diminuendo le quantità di produzione della fascia alta. Che le enoteche ordinano sempre meno Sassicaia e sempre più montepulciano di qualità di fascia medio bassa. Spesso lo si seleziona proprio con le guide, andando a pescare e assaggiare in base ai rapporti qualità prezzo e alle segnalazioni. Sempre più sono i produttori di vino preoccupati di prendere, non tanto i premi, ma quei punteggi minimi che alcuni monopoli esteri hanno messo come requisiti di accesso ai tender internazionali.
Si diceva spesso che il vino di qualità, di cui siamo appassionati tutti, è circa il 10% del comparto generale. Praticamente su 100 etichette che girano tra supermercati e enoteche internazionali, noi ne prendiamo in considerazione 10. Va bene il gioco è questo, del resto sono prodotti molto diversi, ma quello che proprio non capisco è perché noi appassionati ci occupiamo ossessivamente sempre e solo di una piccola parte di quei vini, solo dei prodotti di punta. Dimenticando quella fascia media che è l’ossatura del mercato e il dna del vino italiano.
La colpa non è delle guide, che spesso assaggiano e valutano anche queste etichette, ma proprio di come si è declinato in questi anni il linguaggio del vino. Quanti parlano ossessivamente di borgogna e barolo e poi nella vita di tutti i giorni bevono nero d’avola o primitivo?