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Vino
18 Ottobre 2012 Aggiornato il 6 Aprile 2019 alle ore 21:15

Difendere la guida dei vini dalla smania della top 50

Di cosa parliamo quando parliamo di vino? Questa domanda mi gira nella mente da qualche giorno. Per questo pur facendole e credendo fermamente nella
Difendere la guida dei vini dalla smania della top 50

Di cosa parliamo quando parliamo di vino?

Questa domanda mi gira nella mente da qualche giorno. Per questo pur facendole e credendo fermamente nella validità delle guide dei vini, nella loro capacità in questi anni di rivoluzionare (nel bene e nel male) il mercato del vino italiano, di portarlo alla ribalta che meritava all’estero, non più solo vino da battaglia ma marchio ambito e ricercato, mi sono sottratto alla litania dei premi, delle regioni, dell’attesa dell’avvento.

Però ora a bocce ferme non posso fare a meno di notare che c’è la solita sindrome delle classifiche, si guardano solo le posizioni apicali: tre bicchieri, eccellenze, chiocciole, corone e quelchevolete. Ogni anno trepidanti a scoprire se il Poggio di Sotto sarà meglio di Biondi Santi, se Monfortino è più buono di Ca’ Morisso. Il lavoro di redattori e di migliaia di assaggi ridotto e svilito ad un campionato di qualche centinaia di etichette. Qualcuno ha giustamente pensato a questo punto, che fosse fatica eccessiva e che tanto valeva fare una classifica dei cinquanta vini migliori. E l’ha fatta anche bene.

Girando per cantine, parlando con enotecari amici, interrogando produttori compiacenti, si scopre che quel campionato di etichette alte o altissimi, è quello più in crisi. Che le cantine stanno diminuendo le quantità di produzione della fascia alta. Che le enoteche ordinano sempre meno Sassicaia e sempre più montepulciano di qualità di fascia medio bassa. Spesso lo si seleziona proprio con le guide, andando a pescare e assaggiare in base ai rapporti qualità prezzo e alle segnalazioni. Sempre più sono i produttori di vino preoccupati di prendere, non tanto i premi, ma quei punteggi minimi che alcuni monopoli esteri hanno messo come requisiti di accesso ai tender internazionali.

Si diceva spesso che il vino di qualità, di cui siamo appassionati tutti, è circa il 10% del comparto generale. Praticamente su 100 etichette che girano tra supermercati e enoteche internazionali, noi ne prendiamo in considerazione 10. Va bene il gioco è questo, del resto sono prodotti molto diversi, ma quello che proprio non capisco è perché noi appassionati ci occupiamo ossessivamente sempre e solo di una piccola parte di quei vini, solo dei prodotti di punta. Dimenticando quella fascia media che è l’ossatura del mercato e il dna del vino italiano.

La colpa non è delle guide, che spesso assaggiano e valutano anche queste etichette, ma proprio di come si è declinato in questi anni il linguaggio del vino. Quanti parlano ossessivamente di borgogna e barolo e poi nella vita di tutti i giorni bevono nero d’avola o primitivo?

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