elBulli. Cena e pranzo da Ferran Adrià (ma à la carte, per masticare)
Due milioni di persone. Ogni anno due milioni di persone provano a prenotare un tavolo qui per l’anno successivo e non ci riescono. Al più ci mangeranno in ottomila, perché questo è quanto si riesce a fare con quindici tavoli.
Ma nel novantotto è tutto diverso. Nel novantotto saliamo in macchina e partiamo. Ancora una volta si torna in Spagna.
La Provenza (evitando la folla estiva e la Costa Azzurra), la Camargue, Montpellier e le fortezze catare un po’ più a sud, secondo un itinerario non sempre lineare, inseguiti dal caldo. Poi Barcellona, le vetrate dell’Hotel Ars che abbracciano città, cielo e mare, e che insieme la piramide di cristallo dei fratelli Pourcel scambio con più di qualche notte in simpatiche stamberghe, e infine Roses.
Alle spalle i grattacieli del molo olimpico e davanti Cala Montjoi.
Niente più Ramblas rigurgitanti di turisti, né lungomare asserragliati dai bagnanti. Le ferie d’agosto in Costa Brava lasciano il posto alla macchia mediterranea, alle onde che si infrangono sulla spiaggia sassosa e deserta al tramonto. Agli odori e ai suoni dell’estate inoltrata.
Questo è elBulli. Il mondo di Ferran Adrià.
Ci cucina da più di quindici anni e da almeno dodici ne è il padrone indiscusso, e ormai con sempre maggior frequenza si parla di questo cuoco di trentasei anni, definito da Robuchon il migliore del mondo. Ovunque andiamo i racconti si susseguono, e si concludono tutti allo stesso modo: “è una vera esperienza.”
Se anche siamo preparati, non lo siamo abbastanza.
Fin dall’aperitivo in terrazza guardando il mare, è chiaro che questa non è una cena come le altre. Qui non si viene semplicemente per mangiare, ma per assistere a uno spettacolo dall’interno, essere assorbiti in una visione creativa tecnologica e visionaria che comprende tutti i cinque sensi, più uno: un sesto senso, come sarà definito qui nel corso del tempo, il piacere della mente.
Per subire la concezione artistica di Adrià.
Per circa quattro ore si succedono ininterrottamente una quarantina di portate, il menù degustazione. Dai cocktail e gli stuzzichini alle tapas dolci e salate, ai dessert, in una girandola di invenzioni esplosive utilizzando concetti fino a questo momento riservate ad altri campi. Mangiando con le mani o anche utilizzando posate mai viste prima. Le ricette vengono decostruite per esaltare il sapore dei singoli elementi, modificandone la forma originaria, giocando con temperature e consistenze, passando dal minimalismo (l’uso di pochi elementi declinati in un solo piatto) al pluralismo (la loro declinazione per tipologie). Le categorie saltano per aria. Dolce e salato si confondono, in una commistione continua con la pasticceria (il reparto è seguito dal fratello Albert), così come freddo e caldo, duro, morbido e croccante. Gelati di parmigiano e gelatine di pomodoro, granite salate (poi polveri ghiacciate), e croccanti liquidi, biscotti ghiacciati ma salati. Le gelatine calde, e poi la disidratazione, la liofilizzazione e la sferificazione.
L’idea è che la cucina sia arte, e che per essere creativa debba necessariamente essere innovativa e stupefacente. La cena diventa una performance artistica.
Anche la mia cena, e questo un poco mi disturba, anzi mi fa pure un po’ incazzare, anche se ‘gentilmente’. Per colpa di un piatto che nel mio ricordo ha un nome pericolosamente simile a ‘Gamberi di gambero col gambero’, non tocco più un gambero crudo per dieci anni.
L’imperativo categorico del non copiare fa sì che non si mastichi granché, almeno nel novantotto, e questo non ci lascia scelta. Il giorno dopo torniamo a pranzo. E ordiniamo à la carte.
Il personale di sala e il mitico Soler ci guardano perplessi. Anche i cuochi, dalla cucina a vista supertecnologica. Prendiamo piccione, manzo, e forse pure pasta. Comunque roba che si mastica. Finalmente intonata con le pesanti sedie di legno scuro imbottite, che ho trovato in tanti altri ristoranti spagnoli, oltre che nella sala da pranzo che mia madre ha ereditato dalla nonna.
E scopriamo due cose: sanno cucinare davvero (proprio la vecchia arte culinaria, l’arrostire una carne a puntino), a livelli altissimi, e noi non lasceremo quel luogo se non con l’idea che loro hanno deciso dobbiamo farci.
In aggiunta a ciò che abbiamo ordinato ci arrivano non meno di altri dieci piatti di cui non troveremo traccia nel conto, assolutamente contenuto, come la sera prima. La linea guida che certo non si guadagna con elBulli, ma con le attività collaterali nei sei mesi di chiusura, già ben chiara.
Ma anche loro fanno tesoro dell’esperienza. In seguito verranno eliminati sia il pranzo che la possibilità di mangiare à la carte.
Esco riconciliata, e convinta che ci tornerò per seguirne l’evoluzione. Il resto è storia.
Foto: Francesc Guillamet, linternaute.com, foto43.blog.kataweb.it, luxist.com, letitflow.com, linternaute.com, 15meanings.no