Ideologici o di mercato? Il kamasutra del vino ve lo spiega Black Mamba!
Amici di Black Mamba, non ci crederete ma oggi parlerò di un argomento molto serio. Non scherzo, davvero! Prendete un caffè ristretto che qui c’è il rischio di sbadigliare alla terza riga.
Stavo ripassando un capitolo preciso del Kamasutra quando un dubbio riguardante il vino ha fuorviato la mia fervida immaginazione. Attualmente hanno cittadinanza due visioni imperanti nell’enologia italiana, una commerciale e l’altra ideologica ed entrambe mi fanno incazzare (apertis verbis) poiché distruggono l’originalità naturale. Attenzione ai termini che utilizzo perché sono importanti, spero di riuscire a spiegarmi.
Partiamo da un presupposto, che personalmente darei per assioma: la grandezza del vino risiede nella sua diversità e originalità, ovvero la capacità della vite di dare vini differenti a seconda del territorio in cui cresce. Nessun altro prodotto ha questa caratteristica e nessuna altra pianta come la vite ha la capacità di trasferire nel proprio frutto l’anima stessa del territorio. Questo costituisce l’essenza del vino e il motivo fondamentale dell’esistenza di tanti appassionati in questo settore.
Esiste evidentemente anche una diversità di sistema, di vinificazione ma è una falsa originalità in quanto riproducibile e inoltre distrugge l’originalità naturale quindi dovrebbe essere evitata a tutti i costi. Penso che le due visioni imperanti di cui parlo, facciano esattamente questo: distruggano l’originalità naturale.
Visione commerciale. A chiacchiere deprecata dai più ma di fatto assolutamente dominante nella pratica che si traduce in una sintesi semplicissima: il vino che ha successo sul mercato (ancora oggi, non dite cagate!) è quello colorato, morbido, ben fruttato e si produce indipendentemente dal territorio di partenza. Per riprodurre questo modello tutti i mezzi, o quasi, sono leciti. Dilagante, a suffragio della mia tesi, la sovrammaturazione, che è un’ossidazione in pianta (un’ossessione per Black Mamba!) e provoca la distruzione degli aromi dell’uva, sostituendoli con composti dominanti totalmente indipendenti dal territorio e dal vitigno. Spesso non ci si ferma nemmeno di fronte allo spostamento di vino da un territorio all’altro, cosa che come risultato non può produrre altro che l’omologazione, ma, a questo punto, credo perseguita, intenzionale.
Visione ideologica. Vini prodotti con il minor intervento possibile dell’uomo, nella sincera convinzione che ciò che ne risulta sia naturale e rispettoso del territorio. Per quanto riguarda la naturalità il problema è che il vino in natura non esiste e la destinazione naturale dell’uva è l’aceto, quindi le pratiche di chi segue questa filosofia di produzione hanno ben poco di naturale, basti pensare alla coltivazione del vigneto intensivo. Quando mai si è vista in natura? La lotta contro i parassiti? Parliamone! Non si può evitare, è evidente. La raccolta dell’uva è naturale? No, non lo è perché per la natura la giusta destinazione dell’uva è la riproduzione della vite. Non parliamo poi della trasformazione in vino in ambienti protetti, altro che naturalità! Inoltre uno degli aspetti peggiori è che non v’è alcun rispetto per il territorio, perché la limitazione dell’intervento dell’uomo in vinificazione non permette di mantenere nel vino le caratteristiche che quel territorio stesso aveva creato faticosamente in quel grappolo d’uva. Ecco perché, in queste condizioni, si ha spesso ossidazione (morte!) dovuta alla scarsa protezione e alle alte temperature oppure alla lunga macerazione ad alta temperatura per i vini bianchi, con conseguente perdita di aromi e dei componenti naturali dell’uva che pertanto producono come risultato l’omologazione, ed è qui che paradossalmente le due visioni apparentemente contrapposte in realtà coincidono…Torniamo sempre lì, alla Coincidentia Oppositorum, sì cara al collega Schelling. Quel taccagno mi deve ancora un Crodino. Quante ne abbiamo combinate insieme io e quel briccone idealista…Ops! Ho dichiarato la mia vera età… Questa volta, per amor di una battuta, sono riuscita a sputtanarmi da sola!
A scanso di equivoci vorrei chiarire che non sto parlando di vini biologici o biodinamici in genere, ma di quelli in cui si cerca di limitare drasticamente l’intervento umano.
Avete visto tutti Mondovino, no? Anche lì era esemplificato il dualismo di cui parlo senza aprire, tuttavia, una strada più articolata e complessa, fermandosi in qualche modo solo alla superficie del problema.
Mi piacerebbe credere in una visione più completa della produzione del vino. Che si cercasse di mantenere nel prodotto finale l’essenza del territorio, cosa che la vite è in grado di portare fino all’uva ma non oltre! Per fare questo dobbiamo bandire le ossidazioni (come dice il mio amico Landi), le surmaturazioni e cercare di proteggere durante la vinificazione e l’affinamento quello che la natura ha creato, con cura e senza distrazioni. Nel contempo dobbiamo evitare di aggiungere ciò che non sia già presente in natura, ecco perché credo che la tecnologia sia da accogliere quando consente di proteggere, ma da ripudiare quando determina manipolazioni o aggiunte esterne. E’ l’unica forma di rispetto dell’originalità del territorio che è il vero obiettivo cui tendere.
E infine, prima di tornare al mio capitolo del Kamasutra, vorrei chiedere ai sostenitori dei vini naturali: non sarebbe meglio intendere la naturalità come totale rispetto e protezione di ciò che la natura ha prodotto? Non sarebbe questo più efficace in termini di rispetto per la natura che non la semplice e nebulosa limitazione dell’intervento dell’uomo proprio quando servirebbe a proteggere la natura stessa?
Cosa ne pensate amici? Mentre riflettete io torno alle mie letture preferite…
E mi raccomando: guai a dimenticarsi di Black Mamba!!!