Starbucks. Dei motivi per cui aprirà presto in Italia
Il suo sbarco è dato per imminente da tempo e l’Italia lo aspetta. E’ Starbucks, il McDonald’s del caffè. E se il suo arrivo appare inesorabile anche nella patria mondiale dell’Arabica, è per via di un’altra passione italica: l’ozio.
Rassegnatevi. L’espresso al bancone, radicato nella cultura italiana come la pasta, la moda, la pizza e il pallone, è destinato a cedere spazi alle americanissime caffetterie, nate negli anni Settanta dall’idea di Howard Schultz di clonare, e trapiantare in America, la cultura e il business italiani del caffè. E la ragione è presto detta: dove trovi in Italia un posto dove bere un espresso in santa pace senza lasciare metà stipendio al tavolino, con tanto di wireless e privacy?
Lo sa bene Arnold Coffee che nella Milano da cui tutto è partito (l’idea di trasformare un’azienda di torrefazione in una catena di caffetterie sarebbe venuta a Schultz proprio mentre osservava il vociante popolo di baristi e avventori nei caffè di Piazza Duomo) ha già all’attivo tre locali tutti muffin, ciambelle, wireless e bicchieroni di caffè (e altri tre hanno aperto i battenti a Busnago, Genova e Verona).
Arnold Coffee e McCafé a parte, la presenza modesta in Italia di locali dove sorseggiare un cappuccino in santa pace senza dover lasciare spazio ad incalzanti avventori in seconda fila, è un unicum mondiale. Un’eccezione che include un’altra stranezza: Starbuck, già presente negli Stati Uniti con 11 mila punti vendita e sbarcato anche in Giappone (con 925 caffé), Regno Unito (730), Messico (314), Francia, Spagna, Germania, Svizzera, Austria, Grecia, Turchia, Libano, Giordania, Egitto e Arabia Saudita, non ha ancora messo radici in Italia.
E pensare che nel 2002, come ricostruisce Business Week, nei piani di Schultz alle prese con l’espansione del marchio, c’era proprio lo sbarco in Italia. Obiettivo mancato visto che “sei anni dopo l’Italia restava la montagna ancora da scalare”. Una circostanza non grave da un punto di vista strettamente economico quanto per il valore intrinseco di una penetrazione nel regno mondiale del caffè.
Ma le cose cambiano e così anche in un mercato saturo e in un paese in cui il caffè si consuma in piedi, ristretto e preparato con miscele di Robusta e Arabica (gli Americani preferiscono il sapore più delicato di un 100% di Arabica), il concept Starbucks potrebbe riuscire nell’intento di “rimodellare una tradizione locale”, e proprio nel paese che quella tradizione ha inventato, spiega Business Week che aggiunge: “Più Starbucks aspetta, maggiore è la concorrenza cui dovrà far fronte da parte di imitatori che hanno tratto profitto dalla sua assenza”. E cioè Arnold Coffee, che pianifica di aprire 44 caffetterie nei prossimi 5 anni e McCafé, “il comparto più in crescita delle attività italiane” di McDonald’s.
Finirà che insieme all’acqua sporca butteremo via pure il bambino pagando la filosofia slow con una conversione di massa al bibitone? Vincerà l’attesa messianica del popolo di Internet, lo stesso che ha dato retta alla trollata di un giovane grafico in vena di scherzi?
Non ci resta che tifare per McCafé che nel rispondere alla domanda: “Che cosa ci fa un italiano al McCafé?”, si (ci) dà la meno ingenerosa (per noi) delle risposte: “Sogna di poter provare l’esperienza di assaporare un caffè fatto solo con miscele italiane di primissima qualità, ma alla maniera di un americano: seduto su un comodo divanetto, circondato da libri, con una connessione gratuita wifi, in compagnia dei propri amici, ascoltando musica…” L’espresso è salvo, insieme ad un riflesso di italianità.
Forse Starbucks non avrebbe gli stessi riguardi.
[Fonte: Il Corriere della Sera, businessweek.com Foto: mediaabsurdity.com, ninjamarketing.it]