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15 Agosto 2012 Aggiornato il 20 Agosto 2017 alle ore 11:05

Sagre. Il caciucco a 12 euro è uno scandalo e non solo per i ristoratori

sagra (ant. o letter. sacra) s. f. . 2. estens.  a. Festa popolare, che si svolge in un paese o in un rione e sim. per celebrare un avvenimento, e
Sagre. Il caciucco a 12 euro è uno scandalo e non solo per i ristoratori

[Sagre sì, sagre no. Il dubbio è sempre lo stesso e la risposta è uguale. Non ha senso accalcarsi in fila per un piatto di plastica in cui agonizzano salsicce di dubbia cottura dell’Efesto di turno accompagnate dalle patatine che hanno assunto i caratteri propri del recipiente. Non venite a raccontarci che tutto ciò serve ad aiutare la locale collettività sperduta su qualche collina dell’entroterra delle zone marine o evitare la sparizione di qualche associazione che si batte per la causa di turno. Il dubbio sul perché prolifichino assembramenti all’insegna di qualche prodotto trattato male resta sempre. E la solidarietà o la simpatia non giustificano che l titolo di Serata danzante con accompagnamento di cibi quasi locali (a meno di non voler ammettere che i polli della GDO siano locali per la continuità della piazza con il più vicino supermercato) diventi all’improvviso la Sagra della… E poi finisce che i ristoratori si incavolano. E i vacanzieri gastronomi abbiano qualche motivo per non frequentarle. Come ragiona Anna Maria che è al di sopra di ogni sospetto essendo organizzatrice di sagre! (VP)]

sagra (ant. o letter. sacra) s. f. [femm. sostantivato dell’agg. sagro, variante ant. di sacro1].

2. estens. 
a. Festa popolare, che si svolge in un paese o in un rione e sim. per celebrare un avvenimento, e soprattutto un raccolto, un prodotto: la s. dell’uvadel vinodel pescela s. del carciofo a Ladispoli.

ristorante s. m. [adattam., su ristorare, del fr. restaurant (v.)]. – Esercizio pubblico dove si consumano pasti completi che vengono serviti da camerieri su tavoli disposti in un locale apposito (il termine indica o vuole indicare un esercizio di categoria più elevata che trattoria)

trattorìa2 s. f. [der. di trattore3]. – Pubblico esercizio, con una o più sale, dove si possono consumare pasti completi; ha in genere tono più modesto rispetto al ristorante, ma spesso il nome di trattoria è assunto anche da ristoranti caratteristici di alto livello (sempre che siano esercizî autonomi, che non facciano cioè parte di alberghi, stazioni, navi, ecc.)

osterìa s. f. [der. di oste1]. – Nel passato, locanda dove si poteva mangiare e trovare alloggio: cammina, cammina, cammina, alla fine sul far della sera arrivarono stanchi morti all’o. del Gambero Rosso (Collodi). Oggi, locale pubblico, di tono modesto e popolare, con mescita di vini e spesso anche con servizio di trattoria.

tavèrna s. f. [lat. tabĕrna «bottega, osteria»]. – 1. a. Osteria, trattoria di infimo rango, frequentata da gente poco raccomandabile: ne la chiesa Coi santi, e in taverna coi ghiottoni (Dante); una t. piena di ubriaconi; linguaggio da taverna, basso, volgare. b. Oggi il termine, di uso prevalentemente ant., è stato riadottato senza più alcun valore spreg. per indicare, insieme al dim. tavernetta, ristoranti, trattorie e sim., a volte di lusso, arredati in stile rustico.

Ovvero l’unico posto dove non si potrebbe mangiare è proprio alla sagra, stando a quanto riportato dalla mitica Treccani (nell’arco della settimana spolvero decine di volumi di Treccani assortite e qualcuno l’ho anche letto :).

Intendiamoci, io sono sagra friendly visto che da quasi 10 anni faccio parte di un gruppo di sfessati che ne organizza di parrocchiali: per due giorni di “somministrazione di cibo, bevande, ricchi premi e cotillons” non siamo mai abbastanza e si comincia sempre un paio di mesi prima. Si arrivano a fare anche 700 coperti e nel corso degli anni i bimbetti che ti facevano volare per aria con vassoi carichi di gnocchi e costicine vengono, una volta cresciuti, arruolati per la sala – mediamente 30 tavoli – mentre lo zoccolo duro dei veterani è equamente diviso tra acquisti e autorizzazioni, cucina, griglie, bevande e spillatrici, dolci, sughi e marinature, friggitrici, montaggio e smontaggio, raccolta rifiuti e gavettoni. Ovvero un gruppo consistente di persone che gratuitamente offrono il loro tempo e le loro energie per raccogliere fondi da usare poi durante l’anno.

Non più tardi di una settimana fa ho letto l’ennesimo contenzioso tra i ristoratori e le diverse associazioni che organizzano questi eventi e il motivo è sempre lo stesso: le sagre portano via clienti ai ristoranti e in tempi di crisi ci si sfida a colpi di coperti. E ovviamente consideravo pretestuose le considerazioni dei ristoratori vista la palese diversità nell’offerta non solo del menù ma anche della location, della carta dei vini, dei dessert e del servizio in generale.

Fino all’altra sera. Si, perchè nonostante conosca la qualità dei fornitori dai quali ci serviamo per organizzare la “nostra sagra”, che Esterina (82 anni) controlla i 100 e più polli ad uno ad uno per la marinatura fatta con il rosmarino e i limoni del suo orto, che il vino non è preparato con le polverine, che gli gnocchi e i bigoli vengono fatti a mano e che il pesto viene preparato da un cuoco genovese che scarta le foglie di basilico appena ammaccate, i prezzi che proponiamo sono sempre “politici”. Conosciamo i nostri clienti, le loro disponibilità economiche, le motivazioni per cui stiamo facendo tutta questa fatica e comunque preferiamo avere dei margini minimi piuttosto che servire piatti che non siano più che discreti (anche perché per i sei mesi successivi il fatto che alla sagra si sia mangiato male diventa argomento di pubblico ludibrio!). Nessuno di noi è un ristoratore e cerchiamo di stare al nostro posto.

L’altra sera, dicevo. Si, alla Sagra del Cacciucco e del pesce fritto (o del totano ai ferri a seconda dei diversi link) di Fonteblanda il conto che ho pagato non era propriamente da sagra: si partiva dal coperto di 1,5 euro, 5 euro per un’insalata di mare che alla fine è sembrata essere il piatto migliore, 6 euro per un risotto che evidentemente qualcuno aveva dimenticato nella pentola, 12 euro per un piatto di cacciucco ricco di concentrato di pomodoro nel quale ho riconosciuto 1 cicala e mezzo, 2 gamberi e un paio di striscioline di seppia e 8 euro per una frittura piuttosto “pesante” (in termini di assorbimento di olio), 2,5 euro per una fetta di torta della Bindi e 80 cent per un caffè che…vabbè, sapete che io i caffè cattivi li lascio nella tazza (o nel bicchiere di plastica).

Nel campo sportivo che ospitava la sagra, allestita anche con qualche gonfiabile e un paio di banchetti dove si vendevano oggetti hand made del “Comitato per la Vita Onlus di Grosseto”, ci saranno stati almeno 200 posti a sedere, serviti da volontari in cucina, in sala, ai banchi. Allora mi sono ricordata dei tanti articoli, delle tante polemiche e della notizia circolata ieri circa il fatto che in Italia hanno chiuso ben 9000 ristoranti: progetti, sogni, impegno, sacrificio e alla fine le sedie sopra i tavoli. Per sempre.

E per quanto io sia sagra friendly, alla luce delle ultime mie “esperienze gastronomiche”, credo che i ristoratori abbiano davvero qualche ragione da spendere.

[Testo e Immagini: Anna Maria Pellegrino]

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