Ripartire dalla sala per battere il Coronavirus, dice Piero Pompili
Piero Pompili gestisce da quattro anni il ristorante Al Cambio a Bologna.
Nelle sue note biografiche è indicato dalla stampa come esempio “impeccabile” per il suo modo di proporsi in sala.
Un maître famoso per aver contribuito a rimettere al cento del dibattito nazionale la Bologna gastronomica con un pensiero che parte dal piatto di tagliatelle al ragù bolognese.
Conosce i meccanismi di comunicazione dell’era dei blog e degli influencer per essere stato tra i primi food blogger con lo pseudonimo Muccapazza e ha creato il ristorante gastronomico partendo dalla sala.
In tempi di limitazione come questi, con la follia dei pannelli di plexiglass che nascondono i problemi di una nuova convivialità legata al distanziamento sociale in sala che è ben più complesso da gestire di quello in cucina, Piero Pompili è la persona giusta da intervistare.
Anche se alla mia richiesta si è definito “la persona sbagliata al momento giusto”.
Hai dichiarato che tutti dovremmo avere una maggiore consapevolezza della “nuova sala” per effetto del Coronavirus. Cioè?
Questo lockdown forzato della ristorazione e la sua ripartenza modificheranno in maniera sostanziale tutto il comparto della ristorazione italiana. Ci sono degli aspetti che vanno analizzati, si va dai desideri e le necessità da soddisfare della clientela, passando per una nuova comunicazione, più sensibile a certi temi, fino a una ristrutturazione aziendale.
Tutte cose di cui si dovrà occupare la sala perché pochi cuochi sono in grado di saper gestire più situazioni. Per cui se non abbiamo questa consapevolezza di una nuova sala non andremo da nessuna parte.
E quindi dove andiamo?
Sono pienamente convinto che la ripartenza ancor prima che da un piatto passerà dalle persone. E in un ristorante non interagisci di certo con lo chef che è in cucina ma è con la sala con cui hai il primo approccio e anche il secondo visto che lo chef, se va bene ed è al ristorante, lo vedi alla fine.
Questa quarantena non ci ha tolto il cibo ma l’abbraccio, il senso di vicinanza e calore che hanno sempre contraddistinto la nostra vita. Tornare alla normalità all’inizio non sarà semplice tanto meno in un ristorante dove le misure di salvaguardia della salute ci terranno ancora distanti.
Ma spetterà a noi abbattere quelle barriere, per questo ho coniato un termine che oggi viene parecchio usato che è quello del “impareremo a sorridere con gli occhi” per stigmatizzare l’uso delle mascherine durante il servizio e cercare di trasmettere quel senso di calore umano anche a 2 metri di distanza.
Sarà compito della sala offrire al cliente il senso di protezione, affetto e calore che un piatto, ahimè, non può offrire purché la cucina offre emozioni diverse. Ma anche nei “ricordi” che suscitano invece i piatti dovremmo stare attenti, perché non dobbiamo dimenticarci che il Covid-19 ha colpito proprio quella fascia di persone anziane a cui sono legati molti dei nostri ricordi gastronomici e sono i piatti che ci preparavamo i nostri nonni o genitori.
E anche qui sarà la sala che non dovrà varcare quel confine della memoria che potrebbe scatenare brutti ricordi e che nessuno dovrebbe avere, tanto meno in un ristorante. Magari sono aspetti a cui uno chef non pensa; in questo la sala dovrà esser anche psicologa ed avere la giusta sensibilità nel proporre e descrivere piatti che invece per un cuoco sono proprio “del ricordo”.
Ma in generale la percezione che avremo dell’andare al ristorante sarà diversa e l’asticella non sarà più posta sulla cucina ma sullo stare bene e in questo la sala dovrà fare la differenza in tutti i settori, comprese le pizzerie visto che in questa quarantena tutti hanno fatto la pizza in casa ed ora i pizzaioli si trovano a combattere lo scoglio del “fatto in casa è meglio” da parte del cliente. Anche lì il valore aggiunto sarà quello del servizio offerto.
Perché la sala è al centro di una nuova visione di ristrutturazione aziendale?
È abbastanza evidente che questa crisi abbia un po’ scoperchiato un vado di Pandora nel senso che si è capito che i cuochi sono bravissimi a cucinare ma non sono capaci di fare gli imprenditori, tant’è che già le preoccupazioni nel proseguire la propria attività sono apparse nella possibilità di andare avanti dopo solo 15 giorni di chiusura forzata.
La chiusura di marzo ha fatto emergere molte criticità gestionali, a cominciare dai pagamenti in sospeso di febbraio che molti ristoratori devono a dipendenti e fornitori quindi prima del lockdown. Ne emerge un quadro allarmante sull’aspetto organizzativo di un ristorante che non può più essere lasciato in mano a un cuoco sognatore ma deve essere affidato a una persona concreta come solitamente è la sala, perché un ristorante, purtroppo, per quanto possa sembrare un attività con un “allure” fantastica non è poi diversa da quell’azienda metalmeccanica che produce bulloni.
I ristoranti sono vere e proprie aziende e come tali devono essere gestite perché quando hai bisogno di un prestito in banca non porti l’articolo di giornale o il bel voto che hai in guida, ma un bilancio aziendale.
In questo sono le scuole che devono venire in contro alle nuove necessità della figura di sala.
In Italia ci sono tanti ristoranti dove si mangia bene ma senza alcuna progettualità e che oggi soffrono di più la crisi perché in realtà la soffrivano già prima. Un ristorante dovrà sempre di più avere la quadratura del cerchio e per far questo occorrerà che i maître diventino abili Restaurant Manager a 360 gradi della nuova ristorazione italiana.
I futuri ristoranti non saranno più progettati dai cuochi ma da chi lavora in sala e sarà il cliente il fulcro di partenza dove costruire il ristorante e non più la cucina di uno chef.
Igles Corelli ha chiesto scusa a tutta la categoria dei camerieri per come sono stati trattati rispetto agli chef. Cosa ne pensi?
Conosco bene Igles, molti bei ricordi della mia vita li ho trascorsi con la sua famiglia perché spesso ero con loro a Ostellato. A lui e sua moglie Pia devo molto della mia formazione professionale pur non avendo mai lavorato assieme. Ma passare così tanto tempo con loro a quanto pare a qualcosa è servito. Almeno a me.
Igles ha ragione, è stato un bellissimo gesto, soprattutto per rilanciare una professione di cui mai come in questo momento c’è bisogno per far ripartire non solo un ristorante ma anche un territorio o un turismo in città. Gli osti, i patron o i camerieri che dir si voglia dovrebbero avere una maggiore consapevolezza del proprio lavoro e di cosa possono rappresentare per le città che li ospitano. Igles ha avuto il coraggio di uscire allo scoperto e fare, se così vogliamo chiamarlo, un mea culpa, ponendo l’attenzione sull’importanza che oggi i cuochi devono dare all’altra metà del successo di un ristorante.
Ma credo che oltre ai cuochi, anche i giornalisti debbano dare sempre più spazio a chi lavora in sala. E francamente conviene un po’ a tutti.
Molto spesso un cuoco è molto bravo a cucinare ma a parlare è un vero disastro. Mai come in questi giorni ho letto interviste e ascoltato dirette a volte proprio banali, senza che offrissero spunti interessanti di discussione sul tema della ristorazione, anche se questi cuochi fanno una ristorazione tutt’altro che banale.
Ecco, forse è il caso che i cuochi capiscano che oggi si mangia bene un po’ ovunque e che in futuro la differenza la farà chi ha qualcosa da raccontare e in questo, la sala, è molto più preparata di quello che si pensi.
Perciò più che tagliare bisognerà investire in comunicazione e sulle persone che sono all’interno dello staff di un ristorante, in chi fa ristorazione tutti i giorni e non delegarla ad agenzie che curano la comunicazione degli chef e dei ristoranti senza conoscere linguaggio e meccanismi come spesso mi capita di vedere.
Sono fortemente convinto che la sala sarà la vera rivoluzione della ristorazione italiana. Proviamo a ripartire da lì.