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Vino
15 Marzo 2011 Aggiornato il 6 Aprile 2019 alle ore 19:51

Alta Fedeltà. Dieci vini ‘artigianali’, tra bookends e bottiglie all’indice

Si parla sempre più di vini naturali, nel nostro piccolo mondo. Se ne parla spesso in maniera manichea e dualista. In una contrapposizione facile ed
Alta Fedeltà. Dieci vini ‘artigianali’, tra bookends e bottiglie all’indice

Si parla sempre più di vini naturali, nel nostro piccolo mondo. Se ne parla spesso in maniera manichea e dualista. In una contrapposizione facile ed immediata tra favorevoli o contrari. Quasi fosse una chiave di interpretazione del mondo. Non ne posso fare a meno, i dualismi non mi piacciano e mi sembrano una maniera semplicistica, ed anche un poco ingenua, di misurare l’esistente.

Credo (come ho ripetuto fin troppo spesso) che la definizione di ‘vini naturali’, più che una categoria, diventi un giudizio. Una sentenza che tende a sminuire tutti gli altri. Ma poi cosa significa ‘vino naturale’? Come si riconoscono e quali sono i confini entro i quali muoversi? Boh! Non lo so… E nessuna distinzione mi convince. Rinaldi è forse più naturale di Conterno? Pepe più di Valentini?

Allora avverto tutto il limite di questa distinzione. Ne saggio i suoi confini confusi. Per non parlare di quanti parlano di vini biodinamici. Sarebbe come parlare di macellerie biodinamiche, un evidente nonsenso. Ma una cosa è certa: non tutti i vini vengono fatti nello stesso modo, con la medesima vocazione e attenzione. Allora?

Allora sempre di più, mi torna in mente quanto detto con Francesco Valentini in tante discussioni animate e approfondite. La sola distinzione che avrebbe senso è quella tra vini artigianali e vini industriali. Non una distinzione necessariamente qualitativa, ma una distinzione metodologica. A nessuno verrebbe in mente di confondere, per esempio, il Pastificio dei Campi o Verrigni, con De Cecco o Garofalo, appare subito chiaro che fanno parte di campionati diversi. Così nel mondo del vino bisognerebbe separare gli ambiti.

Oggi nella mia abituale sosta al Goccetto, davanti ad un delizioso bicchiere di Pievalta, ne parlavo con un’amica americana, nostra lettrice e buona assaggiatrice. La sua domanda è stata: “quali sono i bookends per te nei vini artigianali”. La mia risposta è stata immediata: “De che parli”? I bookends in inglese significa i reggilibri, quegli oggetti che si mettono alla fine e all’inizio della libreria per evitare che i libri caschino. Nel linguaggio comune, poi, sono diventati i capisaldi (in positivo e negativo) di una questione.

Ecco allora di nuovo la vertigine della lista, la compilazione come interpretazione del mio mondo e avvicinandosi il martedì, giorno di liste, l’idea… la lista di questa settimana, è doppia: i bookends del vino artigianale. Quei confini, che secondo me, segnano il punto di non ritorno di questa ipotetica tipologia.

Quelli senza cui stare mai più senza:

1) Trebbiano di Valentini. Per me il prototipo di casa. Solo sentirne il profumo vivo e sottile, mi fa pensare ad Itaca, al ritorno a casa, a serate tra amici. Un grande bianco dalla tenuta nel tempo epica. Il millesimo più antico che ho assaggiato è il 1972. Me lo sono finito in pochissimo tempo, con gioia e allegria. Un vino da bere, più che da parlare. Beverino

2) Monfortino. La riserva di Giacosa Conterno per me è strepitosa e sempre emozionante da assaggiare. La mia preferita sino ad ora è il 1971, ma sono ben lontano da aver messo un punto. Un Barolo che sa di langa, dalla trama tannica impenetrabile e dai profumi sottili e struggenti di rosa e balsamici. Qualcuno dice che non è più lui, ma assaggiate il 2002 e mi direte. Monumentale

3) Pergole Torte. Ovvero lode al Sangiovese vinificato in cemento. Sono di parte, il cemento è heimat, mi ricorda la cantina di mio nonno a Miglianico e la sua convinzione che fosse l’ambiente migliore per vinificare. Ogni volta che sento questo Sangiovese non posso fare a meno di pensare che avesse ragione. Un rosso affilato e elegantissimo, con una beva compulsiva e facile, ma per nulla banale. La complessità è presente ma supportata da una apparente facilità. Verticale

4) Borgogna aligotè di Coche Dury. Un piccolo grande vino. Tagliente e affilato, ma insieme piacevolissimo e complesso. Appena ne trovo in giro non posso fare a meno di berlo e ogni volta mi da una gioia! Una volta l’aligotè era l’uva dei bianchi di Borgogna, soppiantata dal più nobile Chardonnay della cui grandezza in quel territorio sappiamo tutto. Cohe Dury ha continuato a vinificarlo per un grande piccolo vino. Glocale

5) Moscadeddu di Dettori. Non amo i vini dolci, non sono proprio nel mio gusto. Il registro del dolce mi è ostico in ogni declinazione. Ma quando ho assaggiato questo è stata folgorazione. Un vino integro, dai profumi suadenti e mediterravnei. Non solamente dolce ma retto da una bellissima acidità e freschezza. Mediterraneo

Quelli che il mio nome è mai più:

1) Sagrantino Pagliaro di Paolo Bea. Qualcuno parla di eleganza rustica, sarà. Io personalmente lo trovo in ogni assaggio di una rusticità insopportabile. Lontano dai mie gusti e sgraziato. Sgraziato

2) Ribolla gialla di Paraschos. Adoro alcuni bianchi del Friuli, ne ho bevuti a secchi. Ecco, bere a secchi è quanto di più lontano ci possa essere da questo vino. Come lo assaggio mi vengono in mente aggettivi come pesante, terroso. In generale temo che la macerazione sia spesso un problema, tende a mettere in primo piano il metodo sul vitigno, questa poi per me è difficilissima.

3) Amarone, Dal Forno. Lo so è un mio limite, l’Amarone proprio non mi va giù. Sarà la difficoltà con il registro del dolce, ma non ce la faccia. Questo poi è un fuoriclasse, per concentrazione e potenza. Proprio queste peculiarità che lo fanno tanto apprezzare a me lo rendono particolarmente ostico. Concentrazione

4) Ariento, di Massa Vecchia. Ho simpatia per questa azienda, il rosato lo trovo delizioso. Ma questo vermentino in purezza non mi ha mai convinto. Se penso al vermentino, penso ad un vino fresco e beverino, non questo. Amici di cui mi fido me ne parlano assai bene, per questo lo assaggio spesso, alla ricerca di quella bottiglia fortunata tra “polpa e acidità”. Io non l’ho mai trovata, ma ho trovato spesso ossidazione e peso. La prossima sarà quella buona.

5) I bianchi dello Jura. Sarà un mio limite, ma non ne ho trovato mai uno che mi convincesse pienamente. Li trovo insopportabili nel loro tono di maderazione. Pesanti

Foto: sarfati.it, superherotimes.com, acquabuona.it, abcvino.com

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