Anguria e pane: com’è la merenda dell’estate e dei ricordi
Pane e anguria.
Lo mangiava sempre la nonna Silvia, il pane con l’anguria. Anzi, con tutta la frutta. O quasi, non è che facessi delle statistiche. Avevamo delle piante di albicocco davanti a casa, e sotto le fragole, che il nonno si faceva arrivare dalla Bakker, in Olanda. E poi dei peschi, dei noci, dei fichi, dei peri, dei meli, dei prugni, dei noccioli, degli amareni. Dei carrubi – li si dava al cavallo, ai maiali, non so – ma mi raccontava la mamma che lei e la zia Anna li mangiavano.
E allora anch’io, mangiavo pane e anguria.
C’erano anni in cui il nonno piantava un intero campo di angurie – quelle che il nonno chiamava americane, a strisce, oblunghe, e quelle rotonde verde scuro. Un po’ le vendeva anche. Noi fratelli andavamo a prenderle per pranzo o cena, magari facendo prima un tassello nella buccia per sentire se era buona. E se non era buona, via, alle galline.
Il pane era una specie di mica grossa, simile alla mantovana, che durava un po’ di giorni; anche quando diventava un po’ secco, era buonissimo lo stesso. Il fornaio passava col furgoncino mi sembra un giorno sì e uno no, si fermava sulla strada e noi andavamo a prenderlo, e ce lo facevamo segnare sul libretto.
Oppure la nonna ci mandava a prenderlo in bicicletta in paese, a Castione dei Marchesi, a metà strada tra Fidenza e Busseto, nel Parmense. Passavamo le estati là, da bambini, dal sabato successivo alla chiusura delle scuole alla domenica precedente la riapertura, che, ai tempi, era il primo ottobre.
Quando ho avuto il motorino, cioè il giorno esatto del mio quattordicesimo compleanno, il 3 agosto, ho iniziato io ad andare a fare la spesa a Castione. Anche se tutti i venerdì passava il basulòn, Moroni mi sembra che si chiamasse, con un grosso camion pieno di tutto un po’, un alimentari-drogheria che vendeva dagli aghi ai detersivi, alla pasta, agli zampironi. E anche i gelati. Io andavo se era necessario, a Castione o a Fidenza. Oppure al caseificio, ad Alseno, passando per le stradine fra i campi.
Il caseificio era vicino alla ferrovia, entravo in questa cantina piena di forme di parmigiano, di formaggi e formaggelle, a prendere il parmigiano, e il burro, e ogni volta mi facevano assaggiare qualcosa.
Pane e burro, e zucchero. Un’altra merenda.
Ricordo quando il burro lo faceva la nonna, seduta in una stanza della Casa Vecchia (la Casa Nuova la costruirono nel 1963 o 1965), in un fiasco che agitava continuamente tenendolo in grembo. Devo anche averla aiutata, qualche volta.
Nella stanza c’era un vecchio quadro a tema religioso, una bella credenza coi vetri decorati, e una moscarola, il “frigorifero” del tempo, utile a tenere lontani insetti e animali dal cibo. Peraltro, le pareti della Casa Vecchia erano belle spesse e c’era sempre fresco.
Pane e anguria. Non ha lo stesso sapore, dovrei andare dal fornaio di Castione a prenderlo – mi sembra che lo facciano ancora. Spero che non lo abbiano arricchito con crusche o addizionato di ventitré cereali. Ma comunque mi ricorda l’infanzia, i mesi d’estate passati in campagna, a giocare coi fratelli e coi ragazzini del vicinato, a leggere un libro dopo l’altro, a costruire case e accampamenti con le cassette per raccogliere i pomodori, o anche a portare in giro le cassette piene di pomodori, a lavorare nei campi. Mi ricorda la nonna Silvia, il nonno Silvio.
E la bisnonna Cesira, la mamma del nonno. Ricordo vagamente quando era morto suo marito, il nonno Carlo – io giocavo per terra con un piccolo disco volante a molla. O forse me lo sono immaginato. La nonna Cesira era una vecchina curva, col bastone, le tasche piene di caramelle di Pomo, buonissime, che dava a noi bambini – le facevano a Cadeo, nel Piacentino. La aiutavo a raccogliere le sementi dei fiori del giardino – astri, belle di notte, meraviglie, tagete, garofani – per l’anno successivo.
Pane e anguria. Quanti sapori