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Vino
16 Marzo 2011 Aggiornato il 6 Aprile 2019 alle ore 19:51

Asta del Barolo. Nel castello, in diretta skype con Cindia e Putinia

It’s a sport, dicono gli inglesi quando vogliono definire qualcosa fatto in modo “fair”, e senza un tornaconto prevalente se non quello della sana
Asta del Barolo. Nel castello, in diretta skype con Cindia e Putinia

It’s a sport, dicono gli inglesi quando vogliono definire qualcosa fatto in modo “fair”, e senza un tornaconto prevalente se non quello della sana soddisfazione morale. Uno, volendo, l’Asta del Barolo battuta domenica 13 nel Castello (sede del Museo del Vino e dell’Enoteca Regionale, e un tempo casa e cantina dei Marchesi di Falletto), incasso finale attorno ai 40.000 euro per l’equivalente di 241 bottiglie (computando magnum, doppie magnum e un formato quasi unico da 5 litri come multipli), potrebbe anche considerarlo così: “a sport”. Vista anche la dichiarata finalità benefica (sostenere l’ampliamento di una scuola alberghiera aperta e gestita da un salesiano piemontese nel cuore dell’area povera della Cambogia).

Ma la vera verità è che l’asta, gestita in collegamento diretto (e funzionante, dopo qualche skype-bizza iniziale) con Hong Kong e Singapore, per il sottoscritto rappresentava anche un piccolo test. Uno spottino per vedere come l’“altro” vino da rappresentanza italiano, quello da uve Nebbiolo, quello però tradizionalmente più legato d’amore al pubblico anglosassone che al nuovo impero dei wine maniacs (Cindia e Putinia, al secolo Cina-India-Russia, nonché Asia ricca correlata con in primis le due “sliding doors” di area, quelle collegate appunto con Barolo), potesse collocarsi nella macchina del desiderio dei compratori della nuova fascia. Il tutto, in un anno speciale. Quello che ha visto la insana follia (a giudizio del sottoscritto, ovvio) di casse di Bordeaux grand cru degli ultimi due millesimi in giro battute anche oltre i 6.200 euro (6 bottiglie) e difficilmente a meno di 4.000. E l’anno che ha visto poi anche la generale (entusiasticamente salutata da chi lavora nel settore) tendenza dei cosiddetti vini “da collezione (una delle locuzioni più orride peraltro per chi ha per il vino un amore completo e “fisico”, e non speculativo) a salire di parecchio di valutazione nelle aste; un giochetto che ha visto partecipare, diciamo così, alla festa per la sponda italiana, secondo copione, anzitutto il solito Masseto, e un po’a ruota il corteggio dei bolgheresi di prima notorietà (Sassicaia, Ornellaia), il Solaia, la squadra delle Macchiole (cui siamo decisamente affezionati per via anzitutto del Paleo) e un Brunello eponimo come il Biondi Santi.

Ebbene: la prova Barolo non è andata male. Anzi! La media di 166 euro a bottiglia spuntata dal complesso dei lotti (pur gasata da alcuni gesti “benefici” e generosi, appunto, e dalla presenza di un lotto speciale, dedicato a 150° dell’Unità d’Italia, in cassa custom e con bottiglie del 2006 autografate dai 12 produttori “contribuenti”, schizzato ovviamente un po’ su di prezzo) è interessante. E ancor di più perché sostenuto da alcune considerazioni a latere.

La prima è che complessivamente gli “ospiti” collegati on line hanno comprato più degli italiani, aggiudicandosi 21 lotti su 36; e svariati di loro non compravano per beneficenza. La seconda è che un compratore generoso (ha fatto anche da testimonial per l’evento laggiù) ma decisamente avveduto, e impegnato attivamente per business in Oriente (sta lavorando fortissimamente a Singapore) come James Suckling abbia comprato un paio di lotti (una mista da 6, due per cru, di Paolo Scavino 2000, ad esempio, a 1300 euro), specificandomi con grandi sorrisi che nel Far East vanno forte ovviamente quelle che sono considerate grandi annate; e che lo sono e sembrano ancora di più per quel pubblico in parte “rookie” quando, in qualche modo, coincidono con grandi annate bordolesi già acclarate. La terza constatazione è che alcuni vini (il Monfortino, neanche dirlo, ma anche due Oddero 1961, le bocce “nonne” dell’asta) hanno toccato o sfiorato i 500 euro a pezzo.

Barolo, quindi, più che benino, in questo ideale confronto con gli altri vini “da corsa”, i formula uno di questi circuiti speciali. E bene anche il fatto che si siano messi in undici produttori (non più uno solo, l’inventore e motore iniziale Gianni Gagliardo) a far la cosa, riunendosi sotto l’egida di Accademia del Barolo. Continua, intanto, è vero, la guerra di Cannubi (contenzioso al Tar per il diritto di fregiare le bottiglie prodotte con il nome del cru); ed è anche vero che la superficie ammessa a produrre in Docg sia salita in pochi anni di oltre 300 ettari (un sesto, mica un coriandolo!) e la produzione ottimizzata, in buona annata, di oltre 2,5 milioni di bottiglie: drive entrambi non esattamente provvidi e un po’ tanto pericolosi, a mio avviso. Ma un refolo di sinergia invece serve e riserve, dopo le prove felici foriere della resurrezione dei secondi Ottanta e i primi Novanta, quando i produttori di qui parevano, e forse erano, una squadra.

Con l’occasione, ci siamo sparati ovviamente anche: una dozzina di Barolo 2006, qualche 2001, un 2000, un ’98, un paio di ’99 e financo alcune “finestre” 2007. Per i 2006, l’attualità di chi compera, Scavino, Conterno Fantino Chiarlo, Azelia, Damilano, tra gli “astisti” mi sono piaciuti in modo particolare. Dei 2007, tutti molto più beverini e pronti, mi ha colpito la tessitura floreale di Gagliardo. Una piccola sorpresa felice, che – fossi lì a dare i voti, ma stavolta non è il caso – meriterebbe quasi la mia ormai classica Campana… Del resto, in Schede di vino, via via resterà traccia…

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