Belle Epoque 2002. Lo champagne de luxe che convince
Aveva fatto la sua parte, diligentemente, allo Champagne Day di Milano, di cui vi avevo raccontato qualche tempo fa. Ma il suo asso pigliatutto la Perrier-Jouët è venuta a calarlo, tornando peraltro sul luogo del delitto (area Madùnina, cioè) qualche tempo dopo. E in dorata solitudine. L’asso si chiama Blanc des Blancs Belle Epoque 2002, quarto assoluto della sua razza e generazione, visto che Hervé Deschamps (uno degli chef de cave più bravi e, il che non guasta, più simpatici che ci siano in giro per le maison di peso) aveva provato a farne un nel 1993 come pezzo (forse) unico puntato sul magico turning point millenario del 2000; ma poi, visti successo e richieste, aveva replicato col millesimo 1999 e con il 2000 stesso.
Questo 2002 che ha visto ora ufficialmente la luce in Italia (dove, come tutta la gamma Perrier-Jouët, è distribuito da un annetto da casa Antinori) è, ve lo diciamo subito, una roba grossa: e non solo perché, adeguandosi ai tempi e ai nuovi mercati delle bolle de luxe, la casa raccomanda un prezzo al pubblico di oltre 450 euro. Ma proprio perché l’annata è di quelle larghe, serie, abbondanti di mano. Con uve arrivate a dama decisamente mature, e anche con qualche piccolo “dimagrimento” degli acini (e relativa “concentration” all’interno, ma senza cadute di acidità lungo il percorso, anzi il contrario, giura chi l’ha fatto). E vini finali consistenti, materici, tendenti al sontuoso più che al teso, bevibili “perfino” ora (e il perfino è di rigore, parlando di grandi selezioni e di solo Chardonnay, che solitamente chiedono a mani giunte un po’ di pace in vetro, qualche annetto di dimenticanza prima di dare il meglio di sé).
E’ il bello del 2002 B. de B. Belle Epoque che, come ha ricordato Hervé in persona alla platea convenuta felicemente da Peck – e accampatasi decisamente volentieri tra culatelli e prosciuttoni, pezzi di Bitto e Bagoss di millesimi analoghi o persino precedenti quello della bibita da faraoni arrivata da Reims, e un vortice di frittini misti all’italiana e piattini di salumi extra ad aprire le danze, – è figlio legittimo di due sole particelle di vigna, dirimpettaie, separate da una stradina e diversificate per orientamento (una si chiama non a caso “du Midi”, l’altra per non sfigurare “du Roi”) entrambe a Cramant, entrambe classificate, manco a dirlo, 100%, vinificate separatamente da sempre e assemblate sin qui per quattro volte in questa mini-cuvée che è diventata – lo si capisce al volo – la pupilla degli occhi dello chef de cave.
Il quale, dal canto suo, è il settimo nella storia (duecento annetti) della casa per cui lavora, un dato che inquadra al meglio l’aspetto un po’ negromantico, un po’ sacerdotale, un po’ iniziatico (les secrets de la maison, vous savez…), oltre che duttilmente, ma saggiamente, proteso al mercato che la figura incarna e riveste.
In ogni caso, va obbligatoriamente riferito dell’”aperitivo”, diciamo così, a base di Blason Rosé, prima di stilare la pagella al nostro 2002: che dopo le entrée è stato peraltro abbinato a tavola a un iperclassico risottò à la milanèse, per finire con una selezione ad personam, autogestita, di formaggi timbrati Peck (a proposito, chi scrive ha optato per le quattro “B”, bufala-bitto-bettelmatt-bagoss, piùun ricciolo di mascarpone della casa, e dunque a priori non rifiutabile) e un gelato di mandorla e nocciola.
Il Blason, dunque: 30% Chardonnay, 40% Pinot Noir e 30% Meunier nella media degli assemblaggi, bello da vedere, è accattivante, intrigante al naso quanto davvero felice, in questa edizione in giro per fine 2001 e ingresso 2012, anche alla beva. Mobile, fresco senza spigoli, avvolgente senza ruffianerie e sprechi di morbidezza, è il classico secchio di Scatti: approfittarne costa (in rete) da 55 a 60 euro a boccia. In enoteca, appellatevi alla bontà di cuore di chi vende.
Quanto all’illustre debuttante, come si diceva più su, per una volta è già pronto al grande ballo: e se il naso regala le immancabili (in questa fase) note floreali d’attacco, poi subito vira al miele di zagara, che è la nota di sfondo della beva, che però accentua subito l’agrumato appena la sensazione (e il bicchiere: per favore, niente flute qui, e nemmeno i tromboncini decorati Gallé della maison, carinissimi, leggeri, ma da destinare al caso ad altri Champagne della gamma) si dilatano. Arancia e cedro canditi preludono a un bello, lungo finale di mandorla bianca. Mentre, come accennato più su, la tattilità cremosa del vino racconta la sua annata.
Non sarà forse lui il più longevo, tra le quattro creature in bianco sfornate sin qui da Hervé Deschamps (va atteso però, che a volte questi millesimi materici danno autentiche sorprese) ma è un gran bere. Vestito, tra l’altro, per le feste: lo scrigno bianco (vedi uve…) e curatissimo in cui alloggia la bottiglia vuol colpire l’immaginazione. Del costo, del resto, s’è detto. Garantisco però che la premiata platea che ha avuto l’onore e il piacere dell’assaggio in anteprima ha dal canto suo fatto di tutto per mantenerne da subito una quota interessante nell’Italietta pur in crisi, strappandone, sorso a sorso, e con gusto evidente, ai Black Mamba people e ai nuovi ricchi dei Paesi emergenti quanto poteva: 4 scatti al vino, insomma, ma anche all’apprezzamento di chi degustava.