Cavalli sciampagnotti. Ecco lo champagne su cui puntare (divinopaolini)
Champagne. Per brindare a un incontro. Se è giusto. E se è giusto pure lo Champagne. Perché sennò, Gaber docet, mi tengo di cuore la mia Barbera. Perché un incipit così dubitoso? Perché la bella ventata di freschezza, ricerca (e diciamolo pure, “formichina” risparmiosità dei cercatori medesimi, si tratti di enotecari o ristoratori accorti, di privati amateurs o distributori artigiani e lavoratori) che ha soffiato dalla nostra peni soletta fino alle guglie della cattedrale eroicamente rifatta di Reims e dintorni, ha portato sui nostri cieli enoici cumulinembi di piccoli marchi sciampagnotti, frotte di produttori e cru di cui, sino a pochi anni prima, non un’anima, o quasi, aveva sentito parlare. Ci siamo divertiti così, senza svenarci troppo (complice anche un mercato internazionale su quel fronte abbastanza calmierato, e la possibilità di gambittare un piccolo con il suo vicino di banco, casa e vigna meno esoso al primo aumento di un paio d’euri) a pescare, provare e assaggiare, facendo un mini tour nel backstage di zone classiche (Mesnil, Montagna, Avize, Ay etc.) ma anche molto meno, andando a pescare nelle nicchie vagamente residuali di quel mare magnum (se fa un casino, boys, del vino delle madame Pompadour e delle feste in generale) che è l’appellation. Ma intanto frugare, risparmiare, importare direttamente, scoprire ricoprire e riesumare, è finita che insieme a tanti “petits” tresbien sono arrivate pure discrete carrettate di ciofeche. Cose che, diciamocelo, non ci fosse stato stampigliato sopra il mitico, o comunque promuovente, sigillo, non ci saremmo filate di pezza. E avremmo anzi con fiero cipiglio massacrato (ahi, lo sciovinismo è terribile anche quando è renversé, come la celebre torta di mele) se anziché quella di Francia, avessero recato, chessò, un’etichetta più… corta…
E allora, visto che il trend di mercato comincia ad essere tutt’altro e il prezzo dello Champagne medesimo tende a risalire veloce; considerato dunque che anche i petits di cui sopra saranno verosimilmente sempre meno arrendevoli e disponibili allo scontone con i nostri intermediari e/o il nostro acquisto diretto e furbacchiotto, volessimo cominciare “gnente gnente”, come dicono qui a Roma, a distinguere fior da fiore? Il sottoscritto apre le danze, tirandone fuori due che per ripetute prove, e reiterati assaggi, gli paiono cavalli sciampagnotti su cui insistere, e continuare a puntare. E sarà ovviamente grato a chi a corredo volesse farlo stesso, puntando a comporre la nostra “nazionale” di piccoletti con bolle delle marne e dei gessi. Il sottoscritto si riserva poi di parlarvi presto, gettando il sasso anche là, dell’altro fronte sciampagnotto: i big. Ovvero le grandi etichette deluxe delle multinazionali. Per ora, godetevi:
1. Pascal Doquet Brut Blanc de Blancs 1990, 96, 98. E’ roba davvero buona. Il ’96 è da sballo. Il ’90 ha una vivezza e una finezza che commuove, il ’98 è un filo sotto, ovvio, ma fa piacere immenso berlo adesso. Non è per fare lo “sborone” che indico tre annate così onuste di tempo e gloria, ma per dare subito un’indicazione. Bevute nel giro di un mese, hanno confermato quello che pensavo da tempo: Doquet è un piccolo grandissimo. Chardonnay, ovviamente, e di Mesnil. Lavoro in finezza e zero ambizioni di grossezza, mineralità impressionante, soavità angelica, questo Grand Cru è il Blanc che vorrei. Spesso, per non dire sempre. In Italia lo importa Balan. Mi risulta che qualche rara boccia di annate da piangere forse in casa ci sia ancora. Le più “moderne”, compratele e, fiduciosi, mettetele via. Se ci riuscite… PS occhio, che anche i Premier Cru non millesimati non scherzano mica, e fino agli ultimi rimbalzi in arrivo avevano prezzi decisamente amichevoli.
2. Roger Coulon Brut Millesimé 2002. La faccia “dark”, quella in nero dello Champagne, dopo la faccia bianca della luna targata Doquet. Qui siamo sulla Montaigne, terreni più misti, c’è argilla insieme al gesso, e soprattutto siamo a casa del Pinot Noir. Ma stavolta, sorpresa, a prendersi la rivincita in questo mix accorto e lunghissimo al gusto di eleganza e sostanza, è l’altro pinot, il Meunier. Dentro questa roba buona assai ce n’è esattamente il 50%. Ma da vigne vecchie e molto amate, gestite da una coppia che ha rilevato il testimone otto generazioni dopo l’inizio della staffetta. E si sente.. Isabelle ed Eric Coulon fanno anche un base e un rosé interessanti. Ma questo millesimato vola alto. E il loro da poco sbarcato 2003, importato come tutta la produzione da Bellenda, è, a riprova che finché c’è vigna c’è speranza, uno dei pochi di vero buon taglio in un’annata difficile e tanto accaldata anche… a nord di Parigi.