Elogio della semplicità. Il vino che sta bene nei suoi quattro stracci
Poche sere fa, in giro per l’Italia per riunioni di lavoro, sono entrata con una mia amica avvocata che non vedevo da un po’, in un pittoresco locale dove in genere vanno le prostitute e quelli che bevono cocktail. Noi eravamo andate a bere cocktail. Vado pazza per il Bloody Mary e mi piace very spicy, anche se quella sera non ricordo di averne bevuto uno all’altezza della scuola Grand Hotel St. Regis di Roma o Settembrini da quando è entrato il mio amico Pino Mondello. Prima di tuffarci nel Bloody Mary, però, abbiamo provato un vino bianco, l’unico proposto al calice, ma era decisamente imbevibile e preferisco non scrivere il nome di quella bevanda perché i miei ultimi post su Scatti di vino, hanno generato in me la persuasione di quanto sia effettivamente sopravvalutata la verità. C’è un dato di fatto: la veridicità, quando attiene autenticamente alla realtà, attira nemici e danni inutili, dei quali faremmo tutti volentieri a meno. Da ultimo e da quella scaltra che sono, sto adottando la tecnica, tutt’altro che inedita, di dire le cose alle spalle, nella speranza ovviamente che la maldicenza non arrivi all’orecchio dell’interessato, oggetto delle mie perfidie, costringendomi nel caso ad una misera figura. Un sistema cautelativo sicuro che suggerisco in questo senso e già collaudato dalla sottoscritta, è parlar male dei morti. Provate, se vi capita, funziona!
Sta di fatto che su quel sorso di vino bianco economico ma terribilmente pretenzioso e osservando nel contempo i costumi decisamente approssimativi delle avventrici/ habituè, abbiamo inaugurato una riflessione sulla semplicità. Anzi un vero e proprio elogio della semplicità. Evviva chi sa stare nei suoi quattro stracci! E che belli quei vini che non devono raccontare nulla di sé, quelli che si dichiarano spontaneamente per come sono, per quello che il loro destino, il loro Daimon, ha deciso per loro. Non vi spaventate se Black Mamba non parte all’attacco. Questa volta difendo! Prendo le parti di tutti quei vini piacevoli, buoni su cui nessuno scommette. Parlo di vini che non stanno nelle classifiche, di quelli che per le guide non esistono ma se li trovi nella tua osteria di riferimento non li molli e per almeno dieci giorni non chiedi altro. I guru del vino non ne parleranno mai, Parker non racconterà il Soave di Tamellini e Suckling non si sognerà di parlare del Verdicchio di Matelica doc Colle Stefano. Non solo, io stessa, nel mio piccolo, se qualcuno me li offrisse quando sto su un tacco 12 cm, risponderei alla maniera di Black Mamba! Ma io non passo la mia vita sui tacchi a spillo e se chiacchiero con un’amica ritrovata, facilmente desidero bere un vino semplice, diretto, lieve e magari anche giovane, senza che per questo si senta in colpa. Penso al Rosato di Castello di Ama, a molti Nebbiolo, al Rossese già riferito e di più di un produttore, a Ghizzano della Tenuta di Ghizzano, a un Barbaresco della Cantina Produttori, al Falerno di Villa Matilde, al Lambrusco Lini 910, a una schiava Girlan, al Sylvaner di Kofererhof, ( al base, senza scomodare “R”!) Ancora, al Cannonau Lillovè di Gabbas, in onore al mio amico Lorenzo Landi. Per tornare ai bianchi, Custoza di Cavalchina, Pinot bianco o Ribolla di Le Monde, una delizia della zona di Grave, in omaggio a Bernabei che sa fare grandi vini con eleganza e grazia. E quanti altri potrei elencare! Vini che non si pongono il problema della durata, che non hanno a che fare con l’invecchiamento.
Vini il cui destino è durare poco, ma che vivono in scioltezza pur non aggrappandosi alla memoria. come spesso ci ricorda al Goccetto di Roma il mio amico Umberto Contarello, che non sarà un esperto di vini, ma lo è di molto altro, a cominciare dalla saggezza…Poi beve come un Ussaro e questo lo mantiene in vetta alle mie simpatie. Contarello mi ha posto più volte questa domanda, offrendomi un importante spunto di riflessione. Perché mai subiamo la soggezione della durata? E’ la tragedia del pensiero occidentale, come diceva Nietzsche, essere soffocato dal peso della storia. Pensateci bene, nel vino il peso della storia porta a considerarlo poco longevo, come fosse figlio di un Dio minore, perché non gioca la partita del tempo. Che male c’è in fondo a non avere tempo? A non avere durata? L’apogeo di questo concetto sono i Mandala, perché il tempo non è la loro qualità. Il miracolo della bellezza dura un tempo limitato, se ne va, superando il limite della sua caducità. Siamo sicuri che dovrebbe invece rimanere. Perché? A me il dubbio viene e mi auguro sia legittimo. Marlyn Monroe di fronte ad una spiegazione a lei incomprensibile disse: ma perché devo sapere, capire questo? Io devo meravigliare! Ecco, nel termine meravigliare risiede questo concetto che spero di spiegare con chiarezza. Alcuni vini durano se hanno meravigliato, non se hanno perdurato! L’architettura deve durare perché ha fondamenta e questo vale anche per i vini, ma non per tutti.
Amici di Black Mamba, quanto è autobiografico questo misero testo! Parlo di vino ma anche di me. Evviva i vini che non chiedono di essere sposati!
Parola di Black Mamba