Il viaggio dei ricordi. 1996. Paesi Baschi
La mole avvolgente del Guggenheim ancora in costruzione, luccicante sotto il sole incerto mi accoglie. Mi piace Bilbao, anche se quando provo a introdurmi nel museo scavalcando la rete ci manca poco che mi arrestino. L’aria un po’ fané da vecchia città portuale, il lungomare costellato di palazzine primo novecento in cui qua e là la vernice scrostata è venuta via a blocchi…
I paesi Baschi mi sono congeniali. Sarà che anche loro hanno smesso di far esplodere bombe da poco e manco del tutto…
Saranno le scogliere a picco sul mare e le spiagge interminabili, sarà la commistione di vecchi paesini arroccati sul mare e cittadine eleganti ma senza la spocchia dei cugini francesi a pochi chilometri di distanza, file e file di vetrine scintillanti nelle strade principali e appena dietro, orride boulangerie, negozietti e ristoranti turistici.
Sarà forse l’improbabile somiglianza tra le stazioni balneari per famiglie con quelle dell’Adriatico… Schiere di bambinetti di sesso indefinito, con i capelli sulle spalle schiariti dal sole e dal mare, che attraversano la spiaggia con tavole da surf sotto il braccio pronti ad affrontare le onde dell’oceano senza un grammo di paura.
Ecco, forse le onde dell’Adriatico sono alte un decimo, e in generale il mare e il vento sono la metà, ma l’atmosfera mi risulta familiare. Le bande di ragazzini si muovono nello stesso modo sulla sabbia tra le file d’ombrelloni e i chioschi anni sessanta, sorvegliati da lontano da schiere di mamme, zie e nonne che assomigliano tanto alle nostre, a dispetto di una lingua piacevolmente impenetrabile, fatta di gutturali e sibilanti che si accavallano in uno studiato disordine.
Proprio come le onde. Le onde che vedo dall’alto. Un bel volo se ci si sporgesse abbastanza, se passasse qualcosa oltre lo sguardo. Mi allontano dalla finestra, quasi una feritoia, che inonda la stanza di luce grigia appiattendo i colori del tappeto, del baldacchino e dei muri spessi del Parador di Hondarribia, uniformandoli all’acqua.
Accendo il televisore. All’inizio ho l’impressione di non mettere bene a fuoco, ma dopo un po’ me ne accorgo. Lo sport nazionale è una pelota affrontata senza guanti da giganti dalle mani ipertrofiche, che immagini senza alcuna difficoltà a trasportare e poi squadrare i massi di pietra necessari per erigere questa vecchia fortezza del mille, il campo base da qualche giorno. A tirar su dal mare scuro reti pesantissime piene dei merluzzi, delle alici e degli altri pesci che si ritrovano sulle tavole, trasformate dal genio locale di Arzak, di Arguinzoniz, di un giovane Berasategui.
Juan Mari Arzak è il primo, il primo approccio con la grande cucina basca nel locale di San Sebastian che non lascia un ricordo duraturo, solo una vaga impressione di lusso borghese, di solidità, ma a dire il vero l’arredamento importa poco, non è per questo che abbiamo fatto tanta strada. Arzak è ormai un pezzo di storia, ha rivoluzionato la cucina di questa regione recuperando la tradizione in senso avanguardistico. Utilizza tecniche di cottura completamente nuove, come fa nello stesso periodo anche Ferran Adrià a Roses, ma i suoi piatti raccontano il mare, questo mare (indimenticabili le cocochas, le guance di merluzzo), parlano di un territorio che non viene mai messo da parte, nemmeno per un istante e della sua poesia.
E poi Victor Arguinzoniz di Extebarri, grande asador in grado di metter sulla griglia qualsiasi cosa, dalle immancabili cocochas, ai frutti di mare, alle ostriche, alle carni, ai funghi, utilizzando i legni più disparati, quercia, ulivo, arancio, e melo e i loro fumi. Forse non è ancora il miglior pranzo dell’anno come poi si dirà su “lo mejor de la gastronomia”, ma poco ci manca.
Ma soprattutto Martin Berasategui, a Lasarte-Oria, non lontano da San Sebastian, ancora un ragazzino. Il grosso ristorante al momento sembra un matrimonificio alla Miami Vice, ma peggio, dove una luminaria da sagra paesana non stonerebbe affatto, con le stesse palmette nane di tante trattorie dei borghi pontini che cercano di darsi un tono. Le stesse tovaglie di fiandra dai colori pastello, e poco conta che questa sia fiandra autentica, che cristalli e porcellane costino quanto l’automobile parcheggiata fuori, certi verde acqua e rosa confetto restano impressi!
Così la sua stratificazione di anguilla, foie gras e mela caramellata. Per l’epoca è un accostamento azzardato oltre che straordinariamente riuscito, e l’idea stessa di torre, lasagnetta, o parmigiana non è stata ancora declinata in infinite inutili varianti, non è ancora stata abusata. E forse dice qualcosa di una formazione da pasticcere. E’ una rivelazione, e sospetto che non lo sia solo per me, ma anche per tutti gli appassionati, del mestiere e non che vengono fin qui in pellegrinaggio, e questo gioco perfetto, in un rincorrersi di note dolci e salate, con contrappunti acidi e affumicati e una morbidezza spezzata qua e là da consistenze sode e croccanti ne vale la pena. E’ come la conclusione di un cammino, di una ricerca.
Per ora. Perché per Berasategui non è che una parte del percorso, così come per Elena Arzak, che forse è ancora in giro e deve ancora rientrare nella cucina paterna, così come per l’Extebarri.
Così come per noi. Un viaggio che è solo all’inizio…
Foto: thecoolist.com, paesi-baschi.it, Adam Goldman/AP, Identità Golose, assiettesduchef.canalblog.com, Julian Wasser