#napolifoodporn per mangiare pizza alla Nutella con graffe, ad esempio
Siete di quelli che escono di casa al grido di battaglia ‘uagliù c’amma scassà? e/o uagliù c’amma fa’ male?? (ragazzi, ci dobbiamo scassare, rompere e/o ragazzi ci dobbiamo fare male?).
Bene. Allora sarete certamente tra quei napoletani – oltre 370.000 – che socializzano foto di pizze, dolci e panini l’hashtag #napolifoodporn.
Di che si tratta? Della prima guida al miglior cibo di Napoli e dintorni, almeno così si definiscono gli ideatori del followeratissimo account.
Che quanto pubblicato sulla pagina facebook e suo profilo Instagram sia ‘il migliore’ però, è un’affermazione, come dire, impegnativa.
E’ il più pasticciato? Sì. Il più grasso? Sì. Il più zuccherino? Sì. Il più difficile da digerire? Sì. Il più dannoso per la salute? Sì. Ma questo non significa migliore.
Vale la pena di ricordare come e quando è nato il termine foodporn che i creatori della pagina hanno arricchito con la geolocalizzazione partenopea.
Siamo nel lontano 1984, e i fondatori del social fotografico stavano ancora sui banchi di scuola. Rosalind Coward, invece, no. La scrittrice molto british e non meno femminista infila in un suo libro questo termine per definire sostanzialmente l’estetica del piatto, la presentazione del cibo, insomma, l’impiattamento, che secondo il neologismo doveva essere ‘bello al punto di stimolare un desiderio simile a quello sessuale’.
A me –che ricordiamo sono sempre quella che fa il tè con le bustine del discount- le foto (molte delle) postate con l’hashtag #napolifoodporn non me la fanno venire la voglia di mangiare, tutt’altro, mi fanno salire una cosa prossima alla nausea e al disgusto.
Ma cosa c’è di buono in una pizza fumante sommersa dalla nutella e con sopra le graffe fritte?
O cosa in un pancake di sette piani che alterna cioccolato, panna, crema, granella, biscotti e snack assortiti?
O ancora cosa, in un panino lungo mezzo metro, traboccante ogni ben di dio suino, ovino e bovino, impossibile anche solo da addentare?
Dov’è l’armonia dei sapori, dove la sapienza degli abbinamenti, dove l’incontro azzardato di ingredienti insoliti? Dove il lavoro, lo studio, di chi la cucina la fa per mestiere?
Questo non è mangiare. Non è godere dei piaceri del cibo, è essere malati, essere annoiati, essere accecati al punto da cercare fuori da sé, nel cibo appunto, un appagamento altro. E lo raccontava bene, fin troppo bene un compianto Ferreri ne La Grande Abbuffata, i cui protagonisti decidono di suicidarsi mangiando, appunto, fino alla morte.
Per ritornare alla Coward e al suo calpestato neologismo, io in quei piatti non ci vedo che uno scadentissimo porno, volgare, pecoreccio, grossolano, interpretato da attrici tettone senza un minimo di appeal, chiamate solo a prestare i loro servizi un tanto al kg.
Vi ho persuaso o state correndo ad abboffarvi di cornetti agli Oreo?