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Il fatto è che il calcolo dell’impronta ecologica associata alla produzione e al consumo dei cibi è molto più complicato di quel che sembra. Prendete la verdura. Quella surgelata non viene certo dal contadino fuori porta e quindi attraversa lunghe distanze prima di arrivare nel piatto. In compenso la sua cottura è più breve di quella necessaria per il prodotto fresco e consente di saltare la fase del lavaggio che implica un elevato consumo di acqua.
\nMa c’è dell’altro ed è sempre l’IIAS a comunicarcelo. Solo il 2% dei surgelati finisce nella pattumiera contro il 39% dei prodotti freschi, il 19% del pane e il 17% di frutta e verdura. Una vera emergenza (secondo calcoli dell’Università di Bologna, finisce in discarica il 3% del Pil italiano) contro la quale è scesa in campo anche l’Unione Europea.
\nI surgelati superano l’esame pure delle proprietà organolettiche, visto che la surgelazione è, tra le tecniche di conservazione, quella che impatta meno sulla qualità del prodotto. Metteteci pure che i prodotti sottoposti a surgelamento, come ricorda l’IIAS, sono meno soggetti di altri alle fluttuazioni di prezzo perché confezionati con largo anticipo (ad esempio sull’aumento del petrolio) e allora la riabilitazione del surgelato, da più di quarant’anni commodity indispensabile della massaia lavoratrice e ora anche del single poco a suo agio tra i fornelli, apparirà meno improbabile.
\nResta quel lungo tratto di strada, dalla natura alla tavola, prima e durante la catena del freddo, percorso dall’alimento surgelato prima di arrivare a tavola. E’ qui che i più intransigenti cultori della trasparenza storcono il naso. Ed è sempre qui che informazioni più dettagliate sulla provenienza del prodotto e sui processi di lavorazione, da inserire in etichetta o accessibili online (l’esempio di Rio Mare può fare scuola) potrebbero venire in soccorso del consumatore, magari rassicurandolo.
\nFonte: conipiediperlterra.it, IIAS
\nFoto: lauropoli.it
\n","description":"Ci tengono, all'Istituto Italiano Alimenti Surgelati, a farci sapere che la categoria dei prodotti che viene dal freddo è più sostenibile di quanto si"}]}Ci tengono, all’Istituto Italiano Alimenti Surgelati, a farci sapere che la categoria dei prodotti che viene dal freddo è più sostenibile di quanto si pensi. Sprechi quasi vicino allo zero e una quantità ridotta di energia necessaria alla loro cottura sono infatti gli atout ‘ecologici’ di questi prodotti che, generalmente associati ad una cucina frettolosa e globalizzata, rischiano di apparire, per un’altrettanto frettolosa associazione di idee, i nemici giurati della sostenibilità in cucina.
Il fatto è che il calcolo dell’impronta ecologica associata alla produzione e al consumo dei cibi è molto più complicato di quel che sembra. Prendete la verdura. Quella surgelata non viene certo dal contadino fuori porta e quindi attraversa lunghe distanze prima di arrivare nel piatto. In compenso la sua cottura è più breve di quella necessaria per il prodotto fresco e consente di saltare la fase del lavaggio che implica un elevato consumo di acqua.
Ma c’è dell’altro ed è sempre l’IIAS a comunicarcelo. Solo il 2% dei surgelati finisce nella pattumiera contro il 39% dei prodotti freschi, il 19% del pane e il 17% di frutta e verdura. Una vera emergenza (secondo calcoli dell’Università di Bologna, finisce in discarica il 3% del Pil italiano) contro la quale è scesa in campo anche l’Unione Europea.
I surgelati superano l’esame pure delle proprietà organolettiche, visto che la surgelazione è, tra le tecniche di conservazione, quella che impatta meno sulla qualità del prodotto. Metteteci pure che i prodotti sottoposti a surgelamento, come ricorda l’IIAS, sono meno soggetti di altri alle fluttuazioni di prezzo perché confezionati con largo anticipo (ad esempio sull’aumento del petrolio) e allora la riabilitazione del surgelato, da più di quarant’anni commodity indispensabile della massaia lavoratrice e ora anche del single poco a suo agio tra i fornelli, apparirà meno improbabile.
Resta quel lungo tratto di strada, dalla natura alla tavola, prima e durante la catena del freddo, percorso dall’alimento surgelato prima di arrivare a tavola. E’ qui che i più intransigenti cultori della trasparenza storcono il naso. Ed è sempre qui che informazioni più dettagliate sulla provenienza del prodotto e sui processi di lavorazione, da inserire in etichetta o accessibili online (l’esempio di Rio Mare può fare scuola) potrebbero venire in soccorso del consumatore, magari rassicurandolo.
Fonte: conipiediperlterra.it, IIAS
Foto: lauropoli.it