Paesi Baschi. Mi sono innamorata delle tapas e a Irun dico Felix Manso
“Zer da?”, in lingua basca, esprime l’interrogazione “che cos’è?”. Ed è certamente questa l’espressione più usata quando ci ritroviamo a commentare i fatti riguardanti questo piccolo popolo arroccato sui Pirenei settentrionali. (Marco Laurenzano “Paese Basco e Libertà – Storia contemporanea di Euskadi Ta Askatasuna (ETA)”.
Io mi sono posta la stessa domanda: cosa sono i Paesi Baschi? Forse una versione della Torre di Babele prima che Dio diversificasse le lingue parlate dai suoi abitanti? E infatti, l’euskara è una lingua definita isolata perché non ha alcun legame con altri idiomi; il tentativo di alzarsi al cielo, però, prima degli uomini l’ha fatto la natura stessa. Perché, la montagna a far da cornice a spiagge di sabbia finissima lambite dall’oceano, persino per me abituata ai paesaggi liguri, è straniante; poi, i baschi hanno costruito case molto simili alle nostre baite che, da un lato, si affacciano su verdi pendii (come è giusto che sia) e, dall’altro, su rive scoscese o dolci declivi che conducono all’oceano (come appare del tutto insolito).
Passata la prima sensazione di smarrimento, si acquista la consapevolezza che i baschi padroneggiano l’urbanistica, l’architettura, l’edilizia come dei discendenti di Efesto e non solo perché hanno contribuito a diffondere (nel bene o nel male) la figura delle archistar. A Bilbao, le epoche si integrano in modo ordinato, esprimendosi attraverso forme che non sono mai di rottura in senso stretto nei confronti del passato ma guardano ad esso con rispetto; emblematico è Puppy, il cane floreale di Jeff Koons che, da lontano, sembra rappresentare il limite tra il decostruttivismo di Gehry e le case d’epoca che fronteggiano il Guggenheim.
La città è regolata da un’idea di simmetria che fa si che le case nuove abbiano facciate poco prospicienti esattamente come quelle di epoche precedenti; le strade sono ampie ma non dispersive, si comunica ma non si invade (che poi, è un po’ il carattere basco), tanto che l’affascinante Biblioteca Foral, formata da un volume in pietra e da uno completamente vetrato e serigrafato con citazioni, può tranquillamente convivere con il palazzo di fine XIX secolo che ne costituiva la sede originaria.
Le statue commemorative sono quasi un’ossessione e il tributo è rivolto non solo a personaggi della storia ma anche a rappresentanti del folclore locale che costituiscono espressione dell’essere basco. Questa smania architettonica si riscontra anche in cucina. Superfluo ricordare che i Paesi Baschi sono terra di pintxos (una sorta di tapas), uno o più ingredienti su una fetta di pane. I locali che servono pintxos presentano le seguenti caratteristiche: ampi banconi strabordanti di coreografici piatti, stuzzicadenti e tovagliolini disseminati ovunque, bicchieri di birra (o di clara per chi regge poco l’alcool come la sottoscritta) o di txakoli, vino che rende molto più semplice passare da un locale all’altro mangiando senza tregua (di facile beva perché leggermente frizzante, secco e con buona acidità).
Che ci si trovi a gozzovigliare sobriamente a Bilbao (perché la città induce a mantenere un contegno) o a tentare una capatina in tutti i locali di San Sebastian (ir de pintxos), la verità è che mangiare diventa come collezionare figurine: ce l’ho, mi manca. La cucina in miniatura è un mezzo relativamente semplice che consente ai baschi di sfogare la loro creatività: per cui, le varianti di pintxos sembrano essere infinite, a volte immediate, a volte incomprensibili. Esistono persino diversi campionati di pintxos, in cui si sfidano i migliori chef (non in miniatura, anzi, la loro grandezza è inversamente proporzionale alla capacità che hanno di ridurre profumi e sapori in uno spazio esiguo come una fettina di pane).
Gli ingredienti sono, tra gli altri: crostacei, tonno, baccalà, alici, patate, peperoni, funghi, aglio e cipolla, jamon iberico, cecina (carne bovina essiccata e affumicata proveniente dalla parte posteriore dell’animale), chorizo; purché sempre legati al territorio. Ciò che colpisce è che, ovunque ci si trovi, a Bilbao o in una città più piccola, in un bar pluripremiato di San Sebastian o in uno di quelli dove si incontrano gli habitué che bevono un bianchino al banco, varia la qualità, ma non cambia l’orgoglio di mostrare questo patrimonio commestibile.
L’incontro migliore, sfociato in un infatuazione che mi stava facendo riflettere sulla possibilità di trasferirmi nei Paesi Baschi, l’abbiamo fatto a Irun. Arrivati a tarda sera, dopo una giornata in cui gli scorci oceanici avevano temporaneamente assopito gli istinti famelici, ci siamo seduti, a caso, in uno dei bar della piazza principale. Nella certezza che si trattasse di un locale per turisti, nella totale mancanza di indicazioni e di tempo per scegliere altro. Invece, il bar ristorante Gaztelumendi Antxon (che ha festeggiato, quest’anno, i 70 anni di attività) nascondeva nelle viscere un cuoco stanchissimo, con occhiaie profonde, tatuaggi da marinaio e orecchini, Felix Manso, successivamente googlato e identificato come vincitore di numerosi premi di cucina in miniatura.
Queste sono le gioie della vita, laddove la serata inizia con un giovane cameriere scontroso che non vuole aiutarti a capire cosa contengono i piatti elencati nel menù ma via via si ammorbidisce o forse sono le sorpresine preparate da Manso che fanno sembrare tutto più bello.
Una deliziosa ciotola di insalata con salsa di frutti rossi, aceto balsamico, cipolline fritte in pezzi piccolissimi, noci tritate e, soprattutto, caprino caramellato a cui ritengo Manso parli e lo convinca a essere saporito e delicato allo stesso tempo (forse, con tutti quei tatuaggi, il formaggio si intimorisce).
Tempura di verdure in salsa agrodolce, mangiata con le mani per velocizzare il percorso piatto-bocca.
Gelato di torrone e lampone con panna… pensare che non sopporto il torrone, ma con il lampone la rima è baciata in tutti i sensi. A quel punto dovevo conoscere il cuoco, pensando si trattasse della distinta signora che si aggirava per il locale ormai quasi vuoto. Invece era Felix, di poche parole (anche per ovvie differenze linguistiche) ma con uno sguardo vivissimo.
Ho letto che viene definito il cuoco più “madrugador”, mattiniero della zona: infatti, il mattino seguente era lì e io non ho potuto fare a meno di iniziare la giornata con una delle sue caramelle di pasta fillo ripiene di formaggio e condite con miele, semi di papavero e petali sminuzzati di peonia. Poi, così come è arrivato, altrettanto velocemente è sparito. Mi auguro di sentirne presto parlare, anche solo per la mole di lavoro che affronta ogni giorno (se non ho capito male, è chef anche in un altro ristorante).
A Irun, segnalo anche l’Hotel Alcazar, dove abbiamo pernottato, che, all’esterno, sembra un anonimo albergo per famiglie degli anni 70, mentre, all’interno, è stata mantenuta o ripristinata parte dell’atmosfera della casa padronale di cui ha preso il posto.
Per rispondere alla domanda con cui ho iniziato questo racconto, credo che i Paesi Baschi – almeno da un punto di vista enogastronomico – siano, per alcuni, le 26 stelle Michelin assegnate agli chef della regione nel 2012; per altri, la frustrazione di dover fare colazione con tortilla e ColaCao (una sorta di latte e Nesquik); per me, continuare a chiedermi cosa sono e sapere che potrò cercare – e trovare – molte altre risposte.
[Paola Caravaggio. Immagini: Sonia Braguzzi e Stefania Cappellini]