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16 Maggio 2010 Aggiornato il 13 Settembre 2013 alle ore 02:02

Arcangelo Dandini e la Buona Cucina Romana

Perché in una città che ha nelle sue corde quattro cucine quando si tratta di mostrare al mondo il proprio stile riduce il suo impegno solo ad una bassa
Arcangelo Dandini e la Buona Cucina Romana

Perché in una città che ha nelle sue corde quattro cucine quando si tratta di mostrare al mondo il proprio stile riduce il suo impegno solo ad una bassa rappresentazione falsa e folk delle proprie origini? La cucina romana ha 2000 anni di storia accertata e documentata, da quella più antica, dal medioevo arrivando poi al rinascimento con la cucina cardinalizia, fino agli inizi dell’ottocento con la cucina pastorale e testaccina. Quando dico che la città di Roma si rappresenta con una gastronomia da folclore turistico non parlo della trasformazione del cibo sulle innumerevoli bancarelle che imperversano nelle accaldate estati romane, sarebbe troppo facile blandirle. Mi riferisco soprattutto alla totale mancanza di normativa a tutela sull’argomento da parte del Comune o della Regione, dove non esiste uno straccio di iniziativa che si preoccupi dell’immagine del nostro cibo, di quello che proponiamo, non dico a livello nazionale ma, almeno, a casa nostra, con le Istituzioni locali.

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Quello che intendo è una sorta di codifica storica dei cibi romani, lontana dai giochi delle Igp, delle Dop e quant’altro. Mi piacerebbe che si selezionassero cibi veramente locali, preparati secondo le nostre corrette procedure, partendo da presupposti storici validi e reali, senza fraintendimenti o alterazioni che stravolgano la vera essenza dell’identità, l’anima della nostra cucina.

Dare un senso di storia vera a ciò che si offre, tanto per strada che nei ristoranti, parlare del cibo senza enfasi ma cercare di comunicare la storia e le tradizioni anche con semplici nozioni. Alla gente, anche a quelli che non sono turisti, interessa sapere cosa c’è dietro un piatto, perché si sceglie e si propone una cosa invece che un’altra.

Noi abbiamo la fortuna di vivere in un eden gastronomico e ci riduciamo alla rappresentazione folk delle nostre tradizioni, con momenti di incontro nelle piazze ad ingurgitare cibo improbabile e bevande troppo gassate. Sviliamo quella che e’ stata per millenni la culla di riferimento gastronomico nel mondo conosciuto allora, basti pensare ad Apicio prima e a Bartolomeo Scappi poi, con atteggiamenti che svalutano le nostre materie prime, dimenticano la filosofia che c’è dietro ai nostri piati, riducono noi stessi a meri scongelatori, che accomodano in un piatto quello che non si sa come abbiamo scelto. Così, per chi passa per Roma e per quelli che mettono il naso fuori di casa solo col bel tempo, sembra che esistano solo manifestazioni sotto il Tevere o baracconi a Monte Celio. Un po’ poco, no?

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Sarebbe ora di promuovere, finalmente e una volta per tutte, questa benedetta gastronomia romana, chiamandoci fuori dai cliché del becero e triviale modo di ragionare da sagra paesana in cui noi stessi siamo andati a ficcarci.

Non è mio compito fare queste analisi? Il cibo e l’accoglienza sono il mestiere mio e della mia famiglia da sempre, quindi mi sento chiamato in causa in prima persona. A me piacerebbe che domani o in un futuro prossimo ci possa essere un angolo dove poter esprimere al meglio le potenzialità del nostro cibo, portandolo dove è inatteso, dove ti aspetti la baracchina col salame scaldato dal sole, o al parco giochi e spiegare a chi viene a curiosare perché il supplì di riso si chiama in quel modo e, soprattutto, perché è così buono se lo si frigge in olio candido, si fa mantecare un risotto con la carne vera, il pomodoro reale, una mozzarella o una provatura civile. Tutto questo potremmo farlo accadere se davvero ci importasse del nostro lavoro, del nostro proporre il cibo, del nostro farci conoscere. Perché questo è il compito del cibo: dire di noi, raccontare chi siamo. E noi, forse, siamo quelli delle baracchine davanti a San Pietro? E’ quella la cucina romana che ci rappresenta? Non me, non è quella la cucina che rappresenta me.

Finisco da dove sono partito: quanti degli abitanti della città eterna conoscono le origini e la provenienza storica del cibo che mangiano? Se la risposta a questa domanda sarà una polemica, mi auguro possa essere spunto per iniziare nuove discussioni e viaggi attorno al mondo del cibo romano. [Arcangelo Dandini]

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Con Arcangelo Dandini il nostro confronto sul tema della ristorazione a Roma e sul suo futuro è quasi quotidiano. Le posizioni, anche di altri amici, suoi colleghi e appassionati di cucina, hanno sfumature diverse. Ma alcuni elementi si rincorrono e saltano fuori in ogni approccio, ragionamento o classificazione: qualità reali delle materie prime, conoscenza del passato per guardare al futuro, capacità di innovazione solida. Il processo di valorizzazione deve comporsi del miglioramento di tutti i segmenti. Un po’ come i tempi intermedi in una gara di Formula 1. E come in un campionato mondiale occorre attrezzarsi per competere con le altre realtà. Non è una crociata contro qualcuno o qualcosa, ma una messa a punto per noi stessi, la nostra gastronomia e il nostro gusto. Che non vuol dire rifiutare, chiudersi, provincializzarsi. La Buona Cucina Romana, come quella Milanese, Napoletana o Italiana, deve essere semplicemente buona. Ho chiesto ad Arcangelo di offrire a tutti noi il suo punto di vista senza barriere e paletti per cogliere quelle sfumature. Come in un Tentativo di Carbonara ben riuscito. Che parte sempre da una “cacio e ova” ma arriva a dirti qualcosa di diverso. E non sono chiacchiere! (V.P)

Le foto della Super Carbonara (Tentativo di descrizione di una Carbonara a Roma) e di Arcangelo sono di Francesco Arena. La trovate anche sullo speciale di questo mese del Gambero Rosso dedicato ai cru della pasta.

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