Quando lo Stato fa il Pecorino in Romania
Sapevamo che il finto made in Italy sottraesse risorse ai nostri allevatori, coltivatori, produttori e alle casse dello Stato. E perfino dopo la nomina di Sebastiano Pitruzzello, principe dell’Italian sounding, a Cavaliere del Lavoro, continuavamo a pensare che il traffico di Parmesao, Prisecco, Palenta e Mozza Bella, fosse un colpo quasi mortale al gusto e alle tasche del sistema Italia (60 milioni di euro il danno per l’economia italiana secondo Coldiretti). Ma ci voleva una mente leggermente diabolica per immaginare che a taroccare pecorini, ricotte e mozzarelle, a fare concorrenza alla galassia delle tipicità italiane sfruttando il buon nome dell’Italia ma utilizzando materia prima straniera, fosse proprio lo Stato italiano insieme ai maggiori produttori italiani di Pecorino sardo. Non un formaggio qualsiasi, quindi, ma un Prodotto a Denominazione di Origine Protetta.
Tutto in nome dell’internazionalizzazione delle imprese, tale era la mission di Simest, la società controllata dal ministero delle Politiche Agricole che, in società con Lactitalia, di proprietà al 70,5% dei fratelli Pinna, primi produttori caseari della Sardegna, ai vertici del Consorzio di Tutela del Pecorino sardo, utilizzava latte ungherese e romeno (100 mila litri al giorno) per produrre latticini “di tradizione italiana”. “Per voi abbiamo intrecciato il latte romeno alla tradizione e alla tecnologia italiana”, si legge sul sito di Lactitalia. “Da questo abbinamento abbiamo fatto ciò che noi sappiamo fare di meglio: formaggi con passione”. E giù caciotte, mascarponi, l’immancabile mozzarella (nella triplice versione ciliegine, filone e bocconcino), ricotta (ovviamente Toscanella), pecorino, panna, una nutrita linea di prodotti commercializzata nei mercati USA e UE dal marchio Dolce Vita (più Italian sounding di così!) e romeno dalla società Gura de Rai.
Ora il dilemma è: è meglio la linea dura di Coldiretti (difendere a spada tratta tutte le tipicità, anche quelle non protette dai marchi Dop e Igp)? O quella più morbida di Confagricoltura (difendere solo la crème riconosciuta delle tipicità)? In fondo basterebbe un’etichetta più loquace in materia di tracciabilità, che dia al consumatore la possibilità di dire l’ultima parola, scegliendo un prodotto anche in base alla provenienza delle sue materie prime. Ma forse il disegno di legge sull’etichettatura, fermo alla Camera dopo l’approvazione al Senato, non è più tra le priorità del Parlamento.
[Fonti: corriere.it]