Come fare la cacio e pepe con il pomodoro
Il mio amico Silvano la chiamava Heavy Metal, non mancava mai alla fine delle session sfrenate di vino e cibo, che chiudevano le notti de “L’Impero Romano”. Vincenzo “il farmacista” ne era un esecutore straordinario, io l’ho imparata da lui e da allora mi accompagna. Sembrano passati secoli da quelle notti magiche, che hanno formato una generazione di gourmet della Capitale. Un secolo in cui mangiare e bere era molto più semplice di ora. Sarà stata la lira, sarà stata la prima repubblica, sarò anche che il vino e il cibo ancora non erano quel catalizzatore di attenzione di oggi, ma ogni sera era una epifania di bottiglie e sapori, e ad un certo punto compariva sempre lei.
Stiamo parlando della cacio e pepe, perfetta durante tutto l’anno e a qualsiasi ora. Ma parliamo di quella di un’altra era, prima dell’ossessione della mantecatura a freddo, della cremosità a tutto tondo, inaugurata da Patrizia Mattei dell’Antico Arco. Parliamo del rito di Cicilardone, in via Merulana, una grande trattoria romana del secolo scorso.
La cacio e pepe che ho imparato io non ha nulla della morbidezza a cui siamo abituati oggi, ma ha la forza di un cazzotto al petto che ti toglie il respiro. La forza di un riff scatenato di Jimmy Page, la forza della voce scura e rotta di Tom Waits. Sa di notti di alcool e nicotina, di palati rotti e pronti all’ultimo affronto. Non è roba per signorine in Prada, ma anzi per quelle signorine che mi piacciono! Per questo la faccio da tanti anni e sono diffidente a insegnarla, non sopporto le ammuine che scatena tra i gastrofichetti in sneaker e birignao. Ma ad Andrea la dovevo. Così come l’hanno insegnata a me, è mio preciso compito insegnarla e farla continuare a vivere.
Così sul finire di una giornata di cucina della strana coppia ho ceduto e messa l’acqua sul fuoco e calati gli spaghetti, in questo caso Giuseppe Afeltra, inizio. In sottofondo Tom Waits canta claps hands.
Prendo la padella di alluminio pesante, metà pecorino di Gregorio riserva due anni e metà Lopez riserva, direttamente dalle grotte dell’agro romano. Due pomodori nell’acqua, per pelarli. Poi si tagliano a concassè, dopo averli privati di tutta l’acqua.
Intanto dalla dispensa, il pepe di Gianni Frasi, una droga. Mi serve intenso e forte come un uppercut, come la voce di Warren Zevon che ora suona, scelgo il Maricha, nero e tostato. Lo rompo nel mortaio, grossolanamente e un poco lo macino con i pecorini. Così che gli ceda gli oli essenziali. Ora tutto è pronto, la pasta a cottura e le basi pronte.
La padella di alluminio va sul fuoco, la pasta gira, prima il pecorino, poi il pepe, si debbono azzeccare alla pasta, ma occhio che non fondano, l’acqua di cottura al minimo e solo alla fine, quando si è fatta granulosa, la concassè di pomodoro a dare colore e placare il morso del piccante con il suo gusto acido.
Andrea mi ha seguito, è perplesso, rompe tutte le sue convinzioni. Tutte le mille cose che ha letto, i millanta post di piccoli maestri che parlano di acque di cottura, di cremosità, di glutine e morbidezza. Tutte balle! Questa è la cacio e pepe, c’è poco da fare e dal sorriso che si è stampato sulla faccia di Vincenzo e Andrea non ho dubbi.
Guardo, fuori dalla finestra, per fortuna sta imbrunendo, questa pasta è notturna e la degna conclusione di una session di cucina. Giro la forchetta mentre Beck canta con la sua voce cristallina “a volte tutti dobbiamo imparare”.