10 motivi gastronomici per amare il Natale a Napoli
Sono sul treno che da Roma mi riporta verso Napoli per le feste natalizie e poco fa pensavo che in tutta la mia vita non ho mai passato questi giorni altrove. Certo, Natale con i tuoi, ma riflettendo ho trovato almeno 10 ragioni strettamente culinarie che renderebbero insopportabile un Natale lontano da Napoli.
Nota bene: qui non si vuole disquisire sull’autenticità di ricette tradizionali napoletane, né elogiare ingredienti, ricette e luoghi rispetto ad altri. Qui si tratta solo e soltanto di come il cibo possa essere molto di più che un veicolo tra mente e palato quando incontra la tradizione. Di come il cervello si adatti a certi schemi legati al cibo, per ricercarli ciclicamente, come un richiamo naturale.
L’ordine dei punti che seguono è puramente cronologico, un crescendo di profumi e sapori che ogni anno mi traghettano attraverso i giorni della Natività in terra partenopea.
1. I mercati del pesce
I più temerari si avventurano verso Pozzuoli o Torre del Greco il 23 notte, ma se ne vedono tanti anche in città. L’odore d’acqua salmastra s’insinua per le strade del Centro Storico, dalla Pignasecca a Porta Nolana. La regola generale è chi primo arriva meglio alloggia. La paura che “tutto possa finire il turno prima del tuo” crea una tensione silenziosa, un sottilissimo equilibrio che può spezzarsi da un momento all’altro. Ma in giorni come questi il “pacco” è sempre dietro l’angolo e lo zio (finto) esperto di pesce è una dotazione di ogni famiglia napoletana. Meglio prenotare con anticipo dal pescivendolo di fiducia, e godersi da lontano lo spettacolo dei boia di capitoni che con fermezza agguantano e affettano gli animali sguiscianti.
2. La pizza fritta al pranzo della Vigilia
Questa è una delle usanze più controverse del nostro Natale: cominciare tre giorni di guerra dichiarata allo stomaco con il pasto più prepotente della nostra tradizione. Una sorta di sbarco in Normandia. Ma chi è in cucina sin dalla mattina ha bisogno di calorie per sostenere il ritmo, e gli altri diciamo che ne approfittano. La cosa migliore è reperire la pizza fritta il più possibile vicino casa per portarla calda ai poveri cuochi. Io la mangio da Zia Esterina Sorbillo ai Tribunali, sospinto anche dall’allegria degli spritz bevuti poco prima a piazza Bellini con gli amici, come da tradizione.
3. Le pizzelle fritte
Si avvicina l’ora della cena. Le pizzelle fritte sono la tipica entrée nel menù di casa mia. Tre versioni: semplici, con il cavolo e con le acciughe. Questa leggera pastella prepara di fatto il mio palato al noto schema della cena della Vigilia. E’ il sapore che apre le danze. Poco importa quale delle tre, l’importante è accaparrarsene un paio prima che cominci la cena, destreggiandosi furtivamente tra le pentole in cucina.
4. Lo spaghetto ‘a vongole
Non è mai stato una delle mie portate preferite, ma alla Vigilia di Natale è praticamente piatto obbligato. Tant’è che nel mentre che ti senti con gli amici si dice “sto ancora allo spaghetto ‘a vongole” invece che “al primo”. Tentativi vani di calare meno pasta caratterizzano la preparazione, ma raramente si va sotto i 150 grammi pro-capite, scelta che, inevitabilmente, conduce ad un eccesso di consumo, data l’inabilità di questo piatto a trasformarsi in frittata di maccheroni il giorno dopo.
5. Capitone vs baccalà
Tra capitone e baccalà fritto preferisco nettamente il secondo. Ma la magia del Natale per me è l’olezzo del capitone che permane nei dieci giorni successivi in cucina. Inoltre, è l’occasione perfetta per osservare l’abilità di mia nonna nel friggere. Sprezzante del pericolo, fuma una sigaretta mentre con la forchetta gira i pezzi nella tiella. Una frittura magistrale. Croccante, asciutta, fatta con il metro perfetto dell’esperienza e della sensibilità.
6. La scarola mbuttunata
Un piatto della cena della Vigilia estremamente tradizionale che oramai si vede sempre meno. Cerco di pubblicizzarlo il più possibile per tenerlo vivo, anche se a casa mia la mangiamo praticamente in tre su quindici. La scarola contiene pinoli, uvetta, acciughe, olive, capperi, pecorino e aglio. Una delle preparazioni più belle e delicate della cena della Vigilia. Non si capisce come possa essere stata surclassata dall’insalata di rinforzo, che ugualmente mangiano in pochi, ma che a differenza della scarola si vede molto di più nelle case napoletane.
7. I dolci di Natale
Roccocò, struffoli, divino amore, raffioli a cassata, mustaccioli, cassate, pastiere. Tutti questi per me sono i veri colori del Natale. A casa mia ci sono due questioni annose che non troveranno mai un epilogo. La prima è sulla migliore cassata e normalmente da me ne girano 5-6 tipologie. Questo triangolo perverso Palermo-Catania-Napoli obbliga all’assaggio forzato, che ben pochi riescono a concludere entro il 25 dicembre. Poi c’è il dramma degli struffoli di mia zia, che ogni anno non sono mai buoni come quelli dell’anno prima. Destinati quindi ad una spirale auto-degenerativa che in teoria porterà alla loro dissoluzione nello spazio-tempo. Io li trovo sempre buonissimi, perché li fa morbidi al punto giusto da riuscire ad assorbire leggermente il miele.
8. Lo spasso
Nocciole, mandorle, noci, datteri, fichi e prugne secche, castagne del prete. A Napoli possiamo semplicemente chiamarle ‘e ciocele. Un nome divertente per chiudere pasti infiniti, per molti costituisce una valida alternativa ai molto più impegnativi dolci. La questione sul miglior spasso (rivenditore di frutta secca) è un’altra grana del nostro Natale. “Che fine hanno fatto le castagne di una volta di Frigerio?” Si sente da un lato. “Frigerio ha chiuso!” Si sente dall’altro. Io ogni anno mi aspetto che qualcuno confessi che le vere castagne di Frigerio in realtà non sono mai esistite, ma intanto continuo a crederci un po’ come a Babbo Natale.
9. La minestra maritata
Questa unione tra verdura, carne di manzo e gallina è la vera Regina del pranzo del 25 dicembre. Quando la ritrovo davanti agli occhi, esattamente in quel preciso momento, realizzo che è Natale. Su questo sono irremovibile: non può mancare su una tavola napoletana. Non ci sono giustificazioni, anche se è soltanto per una persona. Per questo è importante farla mangiare ai bambini. Il vantaggio di andare dal verdummaro e poter chiedere direttamente ‘o mazzett p’ a’menestra è una conquista culturale a cui sottrarsi equivale di fatto a rinnegare la propria napoletanità. Ne avrò assaggiate una ventina di versioni, ma mai nessuna ha superato quella di mia nonna.
10. Remasuglie e intrecci di Santo Stefano
La cosiddetta prima festa è una condanna per chi ospita, eppure è una giornata essenziale per ricongiungersi con i parenti più lontani. Quindi in genere si cerca di unire le forze e aggiungere al menù le cose avanzate dalle battaglie precedenti, che assumono un nuovo sapore condensato in un unico profumo di remasuglia. Ma la cosa che amo della prima festa sono gli intrecci di tradizioni. Io per esempio ho degli zii della provincia di Salerno, così ho imparato ad amare i calzoncelli di Natale giffonesi, cioè delle pastarelle dentellate ripiene di cioccolato, nocciola e castagne. Preferisco quelli fatti in casa, ma in genere sono quasi sempre deliziosi.
Questa è la forza del cibo quando incontra la tradizione. E’ un mezzo per identificare e solidificare le proprie radici, ricongiungendoci con la terra e con la storia, in questo caso il Natale a Napoli. Ma scommetto che ognuno di voi ha uno schema di questo tipo, magari completamente diverso dal mio anche se a pochi passi di distanza, ma che ha esattamente lo stesso valore. Perché il cibo resterebbe inanimato se non passasse per la nostra sensibilità, siamo noi a dargli vita, e con la tradizione, continuità.
[Francesco Simone Lucidi]