Pastiera napoletana. La ricetta scientifica spiegata in 5 punti
La vera ricetta della pastiera, il famoso e ricercato dolce napoletano di Pasqua, è il nuovo capitolo della nostra web serie La ricetta scientifica.
Lo sapete, esistono ennemila versioni. Con uova, grano e ricotta protagonisti in quella tipicamente napoletana, nella versione della costiera sorrentina è l’aggiunta di crema pasticcera nel ripieno a fare la differenza, nel beneventano c’è il riso a sostituire il grano, nel Nolano (e non solo) si usa fare una pastiera tagliolini o spaghettini, come il nostro amico Antonio Sorrentino ci ha raccontato.
La pastiera accompagnava le feste pagane celebranti il ritorno della primavera, durante le quali le sacerdotesse di Cerere portavano in processione l’uovo, simbolo di vita nascente, mentre il grano o il farro, misto alla crema di ricotta, potrebbero derivare dal ricordo del pane di farro delle nozze romane, dette appunto confarreatio= confarreazione, la più solenne delle forme legali del matrimonio romano.
Il napoletanologo Raffaele Bracale fa risalire alle focacce rituali dell’epoca di Costantino il Grande, a base di latte e miele, quelle che i catecumeni ricevevano come offerta nella sacra notte di Pasqua al termine della cerimonia battesimale.
Le suore, su tutte quelle dell’antichissimo convento di San Gregorio Armeno, sono universalmente riconosciute come depositarie dell’autentica arte della preparazione della pastiera: nel periodo pasquale ne confezionavano in gran numero per le mense delle dimore patrizie e della ricca borghesia.
Come ci racconta ancora Raffaele Bracale, la versione originale della pastiera napoletana, versione nata nel contado partenopeo, consistette ed in taluni paesi ancóra consiste (sia pure con il nome di pizza doce ‘e tagliuline) in una sorta di frittata di pasta, frittata però dolce fatta mescolando uova, zucchero, ricotta ed aromi con la pasta lessa (spaghetti o vermicelli o tagliolini) scondita, eccedente il fabbisogno dei commensali; dalla parola pasta addizionata del suffisso femm. di pertinenza iera deriva il nome di pastiera.
E abbiamo nelle nostre “fila” anche la ricetta della pastiera quadrata.
E ora che avete conosciuto l’origine della pastiera con i suoi miti e leggende, avete una sola strada da percorrere: la ricetta scientifica per assicurarvi un dolce perfetto.
La ricetta scientifica della pastiera
Ingredienti (per una teglia da 30 cm, bordo alto)
Per la pasta frolla
3 uova
500 g di farina
200 g di zucchero
200 g di strutto o burro
la buccia di un limone grattugiata
Per il ripieno
700 g di ricotta di pecora (oppure 1/3 di pecora e 2/3 vaccina)
600 g di zucchero
400 g di grano cotto
80 g di cedro candito
80 g di arancia candita
50 g di zucca candita
1 pizzico di cannella
100 ml di latte
30 g di burro
5 uova
2 tuorli
1 bacca di vaniglia
1 cucchiaio di acqua di fiori d’arancio
1 limone
1. Pasta frolla
Parliamo di pasticceria, inevitabile quindi cercare riferimenti validi oltralpe.
Ricordiamoci però, che quando parliamo di grassi al sud, con l’olio un tempo poco “accessibile”, ed il burro praticamente diffuso solo al nord, era lo strutto a farla da padrone.
Noi regoliamoci come più ci aggrada: nessuno ci accuserà di lesa maestà dovessimo utilizzare il burro, sia chiaro.
Comunque sia, come vi ho già raccontato in altra occasione, in Francia la pasta frolla si divide in due tipi: quella salata, denominata brisée e quella dolce, chiamata pâte sucrée.
Per la preparazione di entrambe, spesso si ricorre al metodo sabbiato:
– si mescola il burro alla farina setacciata e al sale (per la sucrée si aggiunge lo zucchero)
– si unisce l’uovo
– si aggiunge un goccio d’acqua fredda, che in alcune ricette viene sostituita dal latte
E, a seconda delle percentuali degli ingredienti e dell’ordine con cui vengono lavorati, si otterranno impasti più o meno friabili.
Di frolle, ad esempio, ne possiamo elencare 3 tipi in base al metodo di lavorazione (sabbiata, classica, montata) e ben 5 in base al bilanciamento degli ingredienti:
• sablé, con oltre il 50% di burro rispetto alla farina;
• comune, con il 50% di burro e il 30-40% di zucchero rispetto alla farina;
• milano, con il 50% di burro e di zucchero rispetto alla farina;
• per fondi, con meno del 40% di burro rispetto alla farina;
• montata, con almeno il 60% di burro rispetto alla farina.
Con i metodi sabbiato e montato e con percentuali elevate di burro, si ottengono prodotti più friabili, con il metodo classico e dosi minori di burro il risultato sarà più compatto e meno friabile.
Qui potremo usare, indifferentemente, una tra la milano e la comune.
2. Il grano
Cominciamo col dire che sarebbe meglio utilizzare chicchi di grano tenero da far cuocere direttamente, piuttosto che affidarsi al grano precotto.
In fondo la procedura è semplice: basta mettere a bagno i chicchi di grano per almeno tre giorni, cambiando l’acqua al mattino e alla sera, poi sciacquarlo bene e cuocerlo in acqua (circa 2 litri per 500 g di grano) fino a che non l’assorbe tutta.
Dopo un riposo di 24 ore dentro alla pentola coperta, lo si sciacqua sotto acqua corrente e poi si procede con la normale ricetta, che prevede di farlo ricuocere con il latte.
Sia chiaro che anche in questo caso, se non riusciste proprio a trovarlo crudo, nessuno vi denuncerà all’autorità giudiziaria per l’utilizzo di quello precotto, ormai ben in vista sugli scaffali della GDO.
Punto d’attenzione: crudo o cotto che sia, dopo la cottura finale, mi raccomando, evitate di frullarlo (anche solo in piccola parte), la scusa di voler aumentare la cremosità del ripieno non regge, v’assicuro.
Ecco, come si dice a Napoli, in quel caso “putessem’ pur chiamma’ ‘e gguardie” (potremmo anche chiamare i vigili).
3. La ricotta
Abbiamo già visto come si ottiene la ricotta, che qui usiamo di pecora?
Partiamo dalla cagliata, ovvero quello che si ottiene aggiungendo al latte riscaldato (tra 34º e 40º) il caglio.
Il caglio, che può avere origine animale, vegetale e microbica, è una miscela di enzimi in grado di scindere la k-caseina, che è una proteina idrofila presente nel latte, e di provocare la coagulazione delle rimanenti caseine, idrofobe.
Per effetto del caglio la massa proteica, non più solubile nell’acqua, precipita sul fondo a formare la cagliata, che può essere raccolta e lavorata per fare il formaggio.
La parte liquida che si separa dalla cagliata durante la caseificazione, il siero, viene ora riscaldata alla temperatura di 80-90 °C.
Appunto ri-cotta. Sarà quindi il risultato della coagulazione delle sieroproteine del latte (mediante affioramento) e le proteine interessate sono albumina e globulina.
La tecnologia più antica consisteva solamente nel riscaldare il siero aspettando l’affioramento della ricotta in superficie.
Nei secoli si sono via via sviluppate tecnologie che, sfruttando la reazione di saturazione salina, ottengono un migliore recupero ed una più alta qualità.
Tali tecnologie sono quelle riconducibili all’impiego, un tempo di acque sorgive e/o marine fino agli specifici sali per ricotta di oggi. Spesso vengono anche aggiunte soluzioni acide (acido citrico, lattico, sale amaro o inglese) per catalizzare la coagulazione.
Punto d’attenzione: certo, la ricotta di pecora non piace a tutti, visto il suo sapore intenso e meno dolce (non per niente si miscela con lo zucchero).
Al massimo, se proprio non riuscite altrimenti, potreste usarne la terza parte, utilizzando per la restante la più delicata ricotta vaccina.
Beh, in quel caso cercate di utilizzare una ricotta vaccina da latte, come la Fuscella di Sant’Anastasia che è un PAT, un prodotto agroalimentare tipico protetto. Lo trovate negli elenchi delle specialità regionali che in Italia sono ampi.
La ricotta da latte è ovviamente un gradino più su della ricotta da siero: molto più delicata e saporita.
E ricordate che, al fine di evitare troppa umidità nel ripieno, è preferibile metterla a scolare almeno una notte prima.
4. La frutta candita
È fonte, lo saprete, di tante “lamentele” familiari, dovute spesso al solo fatto di aver assaggiato in precedenza dei prodotti non all’altezza della situazione.
Io, in questo caso mi schiero apertamente, sono del partito della presenza dei canditi all’interno del ripieno, assolutamente.
A patto però di utilizzare un prodotto di primissima scelta, morbido e saporito, per capirci.
E visto che ne sono un fan, ne approfitto qui per raccontarvi brevemente come viene preparata la “cucuzzata”, ovvero la zucca candita.
Si sceglie una zucca grossa e carnosa, si toglie la buccia e i semi e la si taglia a pezzetti.
Si lascia in un recipiente a riposare per 24 ore con il sale.
Dopo 24 ore la zucca va lavata per togliere il sale per poi lasciarla a bagno per tre giorni, coperta d’acqua, da cambiare per tre volte al giorno.
Al quarto giorno si scola e si tiene al sole e all’aria ad asciugare per un’intera giornata.
Il giorno successivo va messa in un tegame coperta d’acqua a bollire, evitando di stracuocerla.
A questo punto, facciamola sgocciolare e, quando sarà ben asciutta pesiamola.
La quantità di zucchero occorrente per la cucuzzata, sarà pari al peso della zucca in questa fase della preparazione.
Una volta pesato lo zucchero, dividiamolo in tre parti. Una parte la metteremo in tegame con la zucca passando sul fuoco ancora per cinque minuti. Lasciamo quindi riposare il composto per tre giorni ancora.
Al quarto giorno aggiungiamo le altre due parti di zucchero e rimettiamo sul fuoco a fiamma bassa. La cucuzzata sarà pronta quando vedremo lo zucchero addensarsi e attaccarsi alla zucca.
5. Preparazione e cottura
Innanzitutto la pasta frolla. Possiamo seguire lo schema che vi ho indicato in precedenza.
Oppure, come tramandato nei tempi dalle nonne, disponiamo su una spianatoia la farina e lo zucchero a fontana.
Al centro aggiungiamo lo strutto (o il burro) e le uova, insieme alla buccia grattugiata del limone.
Impastiamo rapidamente il tutto fino ad ottenere un composto compatto, liscio ed omogeneo, senza lavorare troppo la pasta.
Avvolgiamo il panetto nella pellicola trasparente per alimenti e lasciamo riposare in frigorifero per circa un’ora.
Ed ora il ripieno. Innanzitutto in una casseruola versiamo il grano cotto, il latte, il burro e la scorza grattugiata di un limone. Lasciamo cuocere per circa 10 minuti, mescolando spesso in modo che il composto diventi cremoso.
In una ciotola a parte setacciamo la/le ricotta/e e uniamo lo zucchero, le uova, i tuorli, la vaniglia, un pizzico di cannella e un cucchiaio di acqua di fiori d’arancio, aroma che ha ormai sostituito quello originale di un tempo che fu, il “millefiori”.
Lavoriamo molto bene il composto fino a farlo diventare liscio. Uniamo la scorza del limone grattugiata e i canditi tagliati a cubetti. Mescoliamo bene il tutto e uniamo anche la crema di grano una volta raffreddata.
Punto d’attenzione: non posso negare, essendo una corrente non trascurabile, l’esistenza di una versione più moderna, che vuole nel ripieno la presenza della crema pasticciera, vuoi al posto delle uova, vuoi insieme alle stesse, rendendola sicuramente più morbida ed appetitosa.
Nel caso vi piaccia, vi consiglio d’usare la crema “veloce”, quella del chimico Pere Castells, legato a Ferran Adrià ed a El Bulli. Ricorderete, ve ne ho parlato a proposito della farcitura delle zeppole di San Giuseppe.
E passiamo ora all’assemblaggio finale; riprendiamo la pasta frolla dal frigo e stendiamola allo spessore di circa ½ centimetro.
Prendiamo una teglia del diametro di circa 30 cm, imburriamo e infariniamo, e “caliamo” poi la frolla srotolandola dal mattarello, rivestendo la teglia sui lati fino all’orlo.
Punto d’attenzione: vi ricordo che anche in questo caso, come con il casatiello, esistono appositi “ruoti” (teglie circolari) di ferro stagnato che sono destinati a contenere la pastiera.
Ritagliamo la parte che eccede della pasta e mettiamola da parte perché servirà per preparare le strisce decorative. Versiamo la crema preparata in precedenza all’interno, livelliamo bene e ripieghiamo verso l’interno i bordi della pasta. Decoriamo con le strisce formando una sorta di grata come si fa per le crostate.
Eventualmente spennelliamo la superficie del dolce con un tuorlo sbattuto e inforniamo in forno preriscaldato a 180° per 1 ora e 30 minuti circa, la pastiera dovrà assumere un colore ambrato.
Trascorso il tempo di cottura, sforniamo, lasciamo raffreddare completamente e spolverizziamo poi di zucchero a velo.
Ricordate che la pastiera non va assolutamente mai sformata e che deve essere servita nella teglia (ruoto) in cui è stata preparata, poiché è assai fragile e si rischia di spappolarla irrimediabilmente.
Buon Appetito!
PS. Se siete in difetto di tempo o di voglia, abbiamo assaggiato una pastiera in vendita online: esame superato.
[Link: aifb.it; mtchallenge.it; pastiera.it; lellobrak.blogspot.com. Immagini: Vincenzo Pagano, Renato Bevilacqua, Scatti di Gusto, Rosalia Imperato]
La ricetta scientifica spiegata in 5 punti
Cacio e pepe
Pasta, patate e provola al forno
Ragù napoletano
Papaccelle ‘mbuttunate
Focaccia messinese
Risotto alla parmigiana
Pasta e fagioli
Cartellate pugliesi
Tortelli di zucca
Pastrami di manzo
Cassata siciliana
Spaghetti con le vongole
Pasta alla genovese
Pizza in pala alla romana
Cassoeula
Ossobuco alla milanese
Crêpes
Carbonara
Pasta, patate e provola di Nennella
Ragù alla bolognese
Lasagne
Chiacchiere di Carnevale
Zeppole di San Giuseppe
Spaghetti al pomodoro
Cotoletta alla milanese
Torta salata con carciofi e ricotta
Orecchiette con cime di rapa
Taralli pugliesi con glassa di zucchero
Casatiello di Pasqua