Alta cucina: il fine dining è veramente morto o può ancora salvarsi?
Il fine dining come lo abbiamo conosciuto fino a poco tempo fa sta cambiando. O è già cambiato e ce ne stiamo accorgendo a suon di delusioni e numeri al ribasso.
Giovanni Puglisi ha dedicato all’argomento un lungo e articolato post su Facebook che riprendiamo integralmente. Chi volesse commentare può farlo qui. Per quanto mi riguarda, in breve significa ridefinire l’alta cucina in maniera concreta. (Vincenzo Pagano)
Il manifesto del fine dining prossimo venturo
Volevo che questo post fosse un articolo di inchiesta, una bozza di manifesto, o una raccolta di interviste, un lavoro estensivo e approfondito pubblicato su qualche testata gastronomica, che diventasse magari poi un nucleo attorno al quale canonizzare una nuova scuola di fine dining. Ma visto che non ho tempo, resterà appunto un post scritto in mezz’ora; fatene ciò che volete.
L’alta cucina dell’astrazione, della rarefazione, del lusso concettuale – è giunta al termine: indebitamenti, chiusure eccellenti e cambi di orientamento lo dimostrano.
Un decennio di bombardamento mediatico ha sdoganato nell’immaginario comune gli stilemi dell’alta cucina. L’espressione “ristorante stellato” è entrata nel lessico quotidiano anche di chi mangia solo a mensa e all’all you can eat, col risultato che il mistero dei grandi ristoranti, messo a nudo da una pornografia foto-video in presa continua, è stato svelato. E che anche chi non c’è mai stato abbia l’impressione di conoscerli tutti, questi posti, di aver mangiato tutti i piatti, di essere saturo – nel senso di “sazio”.
La sovraesposizione dell’alta cucina in forma di immagine ha annientato il DESIDERIO dell’alta cucina, così come il porno azzera la libido: troppo vedere dà nausea, l’essere costantemente esposti alla rappresentazione di un’esperienza diventa sostituto dell’esperienza stessa, che perde fascino, appeal e significato.
Il calo del desiderio
L’alta cucina, in parallelo a questo “calo del desiderio”, si è arroccata su posizioni crescentemente più concettuali, idealistiche, astratte; accentuando la spaccatura.
La cosa più grave di questo elitarismo è che non ha più una sua élite: i cuochi parlano solo ai cuochi, misurandoselo a vicenda, e ai mai troppo pochi giornalisti (e pseudo tali, e influencer) che parlano di cuochi. I congressi e gli eventi, nel frattempo, si sono svuotati dei destinatari effettivi sia del lavoro dei giornalisti che di quello degli chef: i clienti appassionati, che leggono le testate per sapere quale tavola scegliere, che pagano e tengono in piedi i ristoranti, sono sempre meno.
Il problema dell’iper-rappresentazione è quindi appena una concausa di un tramonto del fine dining che appare emergente. L’altra metà del cielo è uno scollamento tra codesta “cucina concettuale” ormai priva di fascino e la “cucina” in senso proprio, cioè intesa come attività di preparazione di un “cibo” non solo attraente e stimolante, ma anche sostanzioso, gustoso e nutriente, ormai insanabile.
Gli chef hanno voluto essere Icaro: non fare cibo ma arte, dimenticare l’origine assolutamente carnale e terrena del loro mestiere, appiccicare sull’attività quotidiana della preparazione di nutrimento degli sticker-sanguisuga firmati Jackson Pollock che, se alla cucina hanno aggiunto un rivestimento edgy e patinato, nel frattempo l’hanno svuotata (in parte o del tutto) della sua nobilissima, seppur umanissima, missione.
L’esperienza e il valore del cibo
L’assolutizzazione dell’esperienza, del valore artistico di un piatto, se da una parte è il risultato fisiologico dell’affinamento delle tecniche di cucina, dall’altra è arrivata a un parossismo per cui il cibo talvolta non è più riconoscibile come tale; e non assolve più alla sua funzione essenziale – quello di essere mangiato – diventando pezzo da museo, sia nella propria qualità iconografica (impiattamenti visivamente perfetti, fotografati, replicati) che in quella astratta/concettuale in senso proprio: quella di mangiare un’idea è un concetto interessante, nondimeno è risaputo che le idee siano difficili da mordere, e bisogni dare loro un substrato più concreto.
Non bisognerebbe stupirsi del fatto che la grandissima maggioranza dei clienti pretenda di mangiare un piatto buono e che riempie, oltre che piacevole a guardarsi e ricco di bei concetti.
Stupirsi o non stupirsi
Non bisogna stupirsi del fatto che qualcuno voglia ancora una carota brasata, un petto di piccione o un piatto di rigatoni. Anziché un menu composto interamente di spume e arie e creme.
Non bisogna stupirsi che la crescente concentrazione e astrazione, la riduzione dei piatti a dimensioni e concetti da snack, l’essenzialismo totale di servire una concentratissima costina d’agnello da 15 grammi accompagnata da una concentratissima quenelle di patate arrosto vengano perculati senza pietà da un popolo bue che commenta “è cotto, manda il resto”, e commentati in segreto da clienti paganti che, pur comprendendo il senso della cosa e preservando un sorriso in silenzio, “manda il resto” lo pensano lo stesso.
Se volete salvare il fine dining, è il momento di ammettere che avete sbagliato: l’alta cucina è cucina, non è arte, l’alto cibo è comunque cibo. Il cliente vuole fare esperienza e mangiar bene, ma vuole fare esperienza di cibo, non di galleria, e in ogni caso, fondamentalmente, mangiare.
Cosa succede adesso nel fine dining
Cosa (av)viene quindi adesso?
Dopo l’ubriacatura tecnica della cucina molecolare spagnola, dopo il neo-pauperismo scientifico della New Nordic, è mancata una “scuola corale” che dettasse i tempi e la direzione in cui marciare all’alta cucina mondiale.
Per come la vedo io i tempi sono maturi per una nuova accademia, che superi l’impasse del fine dining concettuale di ambizione artistica rilanciando un modello di cucina che si propone come alto artigianato, rivalutando l’aspetto materico e materiale dei piatti, la loro tangibilità, riconoscendo loro la funzione basilare di nutrimento, godimento e convivialità che li caratterizza.
Auspico l’avvento di una cucina che recuperi le tecniche dell’alta scuola classica, sia essa francese, italiana, Moghul o imperiale cinese, e le integri non solo a pallidi ricordi ma a raffigurazioni vivide delle preparazioni contadine, marinare e di masseria. E che applichi con occhio moderno le proprie risorse alle esigenze del mondo post-covid, restituendo al cibo una dimensione di comfort sociale che inglobi le necessità irrinunciabili vissute dal pianeta Terra nell’Anno Domini 2023: inclusione, rispetto del lavoratore, ritmi umani, abbattimento degli sprechi, recupero degli scarti, senza perdere di vista allo stesso tempo la raffinatezza del gusto, la gradevolezza visiva o la precisione d’esecuzione. Vivendo le stesse nuovamente come mezzo per conseguire una cucina più autentica e tridimensionale anziché come scopo.
Chi vorrei raccogliesse questi spunti? Mi vengono in mente Clare Smyth e Alain Passard, in Italia Lopriore, Cannavacciuolo, Pino Cuttaia, Don Alfonso, Nadia Santini, Negrini e Pisani. E Pierangelini che temo abbia smesso quando ha capito che la direzione in cui andava, lanciatissimo, il treno del fine dining era verso una muraglia di mattoni.
Giovanni Puglisi
[In copertina: la patata di Clare Smyth]