Casatiello napoletano. La ricetta scientifica spiegata in 5 punti
Il casatiello napoletano, la torta rustica tipicamente partenopea, la ciambella basata su strutto, pecorino e pepe e legata a doppio filo a Pasqua e a Pasquetta, alla gita fuori porta del lunedì in Albis, è il nuovo capitolo della nostra web serie La ricetta scientifica.
Una delle più variegate ricette partenopee caratterizzata dalle millemila versioni di matrice popolare e dalla “litigata” sempre pronta.
Le mille versioni, ognuna degna della massima attenzione, testimoniano poi anche l’indice di popolarità della ricetta, così come abbiamo visto con il ragù napoletano, dove il ripieno o anche il solo chiudere delle semplici braciole, gli involtini di carne tipici del piatto, può essere fonte di divisioni familiari.
Per ogni specialità gastronomica di questo tipo esistono tante ricette quasi quanti sono gli abitanti della città.
Il napoletanologo per eccellenza, Raffaele Bracale, ci offre la definizione di casatiello: “con la voce casatiello nella parlata napoletana (con derivazione dal lat. caseu(m)= cacio, formaggio) si indica una tipica preparazione culinaria rustica o dolce, approntata per la festività della Santa Pasqua”.
Rinviando a dopo la distinzione con l’altro tipico rustico Pasquale, il “tòrtano”, appare chiaro a tutti che la preparazione fa del formaggio, non ben definito, l’ingrediente principale.
E restando “nei dintorni” del nome, non sembrerebbe chiarissimo il significato di uno dei dei modi di dire napoletani più famosi.
“È proprio ‘nu casatiello cu ‘e passe!” indicando la persona dal carattere duro e poco socievole se non insopportabile.
Riferendosi – come fa notare Raffaele Bracale – chiaramente alla versione dolce, preparata con numerose uova, uva passita e pinoli, “cose che ad alcuni risultano grevi ed indigeste”.
Eppure c’è chi sostiene che l’espressione sia invece “si’ proprio nu’ casatiello”, riferendosi alla ricchezza di ingredienti della versione salata ed alla sua difficile digestione, fermo restando il voler indicare comunque un persona di carattere “pesante”.
Basta questo, secondo me, per richiedere “l’aiuto da casa”, come si diceva un tempo in alcuni video-quiz di successo.
Ovvero perché incamminarsi lungo questa strada impervia senza un accompagnamento, soprattutto di un vero esperto nel campo?
Ecco perché la masterclass dell’appena riaperta sede di Rossopomodoro di Monza, dedicata appunto alla preparazione del casatiello, m’è sembrata occasione imperdibile.
A tenere le redini Antonio Sorrentino, l’executive chef, originario di Torre del Greco. Depositario della più schietta tradizione partenopea ed appartenente a diverse generazioni di cuochi, con un passato di occasionale garzone (ammette che lo faceva solo per le cospicue mance) consegnando ai clienti più abbienti i casatielli preparati dalla famiglia e cotti nel forno a legna comune, deve soprattutto alla mamma ed alla nonna Maria buona parte della sua “preparazione” in merito.
Tradizionale della Pasqua, il casatiello non veniva servito il giorno di Pasqua – racconta introducendo l’argomento – ma si metteva a tavola il Sabato Santo, più o meno a mezzogiorno.
Perché anticamente a Napoli si diceva che non andava mangiato prima del Sabato perché “S’aveva sciogliere a’ Gloria”.
Questa espressione si riferiva alla conclusione dei riti del triduo pasquale, i giorni di lutto stretto per la Chiesa. Con l’accensione del Cero Pasquale ed il suono delle campane si celebrava (e si celebra) la resurrezione di Cristo.
Terminata così l’astinenza alimentare in casa, sulle tavole tornavano le carni e i dolci.
E per certi versi conforta il sentire lo chef Antonio confermare che come per tutte le vecchie ricette ognuno pensa di preparare il migliore impasto, usando la giusta quantità di sugna e pecorino, creando poi il perfetto equilibrio tra salumi e formaggi.
Ribadendo anche l’uso, tipicamente partenopeo, di macellerie e salumerie nel vendere il “misto di salumi e formaggi” per avere l’imbottitura del casatiello già pronta.
Veniva venduta a peso già tagliata a quadratini, pronta per chi non aveva la pazienza di sminuzzare.
Insomma le frasi del tipo “il tuo ha troppo pepe”, “è troppo unto”, “è troppo vuoto, io lo faccio più pieno”, per chef Antonio parrebbero non essere una novità, anzi rappresenterebbero la norma.
Ciò, a parer mio, serve solo a confermare la matrice rigorosamente popolare del casatiello, con l’impossibilità di definire precisamente le dosi per impasto, formaggi e salumi, e la conseguente oggettiva difficoltà di reperire una ricetta “definitiva”.
Detto questo, vi invito a seguire attentamente la ricetta dello chef.
La ricetta scientifica del casatiello napoletano
Ingredienti (per 10 persone e “teglia” da cm 30 con foro)
Per l’impasto
1 kg di farina 00 di forza
700 g di acqua
30 g di sale fino
5 g di lievito di birra
Per ripieno
300 g di salame tipo Napoli
300 g di cicoli
300 g di provolone fresco
100 g di pecorino romano grattugiato
7 uova
300 g di sugna o strutto
Sale e pepe nero
1. Farina e impasto
La farina utilizzata da Antonio Sorrentino è la Saccorosso del nostro sponsor Mulino Caputo. Comunque dovrà essere di buona forza, per reggere i tempi di lievitazione.
Saranno comunque lunghi, visti i grassi dello strutto e la quantità notevole di ingredienti del ripieno.
E preferiremo qui un impasto diretto, ma senza negare che c’è chi preferisce prepararlo diversamente, anche con lievito madre.
Ricapitoliamo, semplificando al massimo, i vari metodi:
- Metodo diretto
- Metodo semidiretto (con pasta di riporto)
- Metodo indiretto (con biga o con poolish)
Il metodo diretto consiste nell’impastamento di tutti gli ingredienti in un’unica fase.
Il metodo semidiretto con pasta di riporto consiste nell’impastamento in un’unica fase, ma utilizzando pasta di riporto (pezzo di impasto avanzato da quello precedente, che ha maturato un certo periodo di fermentazione e contiene tutti gli ingredienti di un impasto normale).
Il metodo indiretto prevede due fasi: nella prima si prepara un preimpasto (che può essere biga o poolish), nella seconda si aggiungono ai pre-impasti, precedentemente fermentati, tutti gli altri ingredienti.
I due pre-impasti principali sono la biga e il/la poolish.
La biga è un pre-impasto asciutto che può avere molte ore di fermentazione (da 16 a 48), ottenuto con farina, acqua e lievito.
Il/la poolish è un pre-impasto semiliquido ottenuto da farina e acqua (in eguale quantità) e lievito compresso. La quantità di lievito da aggiungere varia in base al tempo di fermentazione e alla temperatura dell’ambiente.
Voi preparatelo come volete, a parer mio preferendo il metodo diretto “classico”, ricordando però che utilizzando il/la poolish o la biga si ottiene un prodotto finale dal sapore e dal profumo più intensi, grazie alla notevole fermentazione lattica che avviene durante la lievitazione dei pre-impasti. Tale fermentazione produce acidi organici, responsabili della formazione, durante la cottura, di aromi invitanti e stuzzicanti.
2. Uova
È una delle componenti che sono fonte di altra diatriba.
Innanzitutto la tradizione che, come ci ricorda ancora una volta Raffaele Bracale, differenzia casatiello e tòrtano in questa maniera:
“È vero, la pasta che forma l’involucro del tòrtano e del casatiello sono molto simili: farina, lievito, tanta sugna, sale e tantissimo pepe, ma – a parte l’allestimento della forma – il casatiello rustico si differenzia dal tòrtano, innanzi tutto per aver il casatiello, rispetto al tòrtano (di cui è quasi certamente un’involuzione), molti ingredienti in meno. Nella composizione della farcia, che nel casatiello rustico è essenzialmente composta di formaggi (donde il nome), mentre nel tòrtano comporta oltre ai cubetti di formaggio, i ciccioli di maiale, il salame e/o la mortadella con uova sode tagliate a spicchi, uova che invece nel casatiello rustico insistono, crude ed al completo di guscio all’esterno infisse nella pasta. Altra sostanziale differenza è il tipo di lievitazione, che è molto piú lunga e pronunciata nel tòrtano, mentre nel casatiello è molto breve di modo che alla fine della preparazione quest’ultima risulterà meno lievitata e piú greve.”
La verità è che la tradizione, quella vera, legata al tramandare di generazione in generazione i segreti familiari della ricetta, è di per sé piuttosto variegata, lasciando agli aficionados dell’uovo sodo (che noi abbiamo visto come preparare in modo perfetto) ampi margini di manovra: alcune ricette familiari lo vogliono solo come ornamento, senza neanche mangiarlo, non apprezzando particolarmente l’innocua patina verdognola del tuorlo che la cottura prolungata genera, altri lo vogliono sodo nel ripieno e anche all’esterno, trattenuto sempre dalle croci di pasta a simulare simbolicamente la corona di spine da Gesù Cristo.
Altri, come abbiamo visto, lo mettono solo all’esterno.
3. Salame tipo Napoli e cicoli (o ciccioli)
Fondamentale, oltreché caratteristico, l’utilizzo del salame Napoli.
Il salame definito “napoli” è, in realtà, una produzione dell’intera Campania, un salume molto simile al salame di Mugnano del Cardinale, storicamente considerato una merce talmente pregiata da essere donata in cambio di prestazioni altamente professionali e consumata in occasione di feste e ricorrenze.
Questo impiego, ne faceva un bene prezioso al quale dedicare molte precauzioni che, impiegate nel passato per mantenere intatta la bontà e la genuinità delle carni, sono diventate nel tempo parte integrante delle tecniche di produzione, di affumicatura e stagionatura tramandate immutate di padre in figlio.
Per la preparazione di questo salame vengono utilizzati esclusivamente tagli di carne provenienti dal prosciutto di spalla, di coscia, dalla coppa e dalla lombata, convenientemente mondati mediante l’asportazione del grasso di copertura, del tessuto adiposo molle e delle parti connettivali di maggiori dimensioni.
Il grasso utilizzato deve essere quello duro di copertura e della pancetta. La carne e il grasso devono essere macinati impiagando una trafila con fori di 12- 14 millimetri di diametro.
Il grasso aggiunto all’impasto non può superare il 25% e il budello naturale deve essere di suino o di vitello.
La lavorazione e la stagionatura vengono effettuate con metodi tradizionali e l’asciugatura e la stagionatura devono avvenire in locali opportunamente areati.
Durante la fase di asciugatura il salame viene sottoposto ad affumicatura. Il periodo minimo di stagionatura varia in funzione della pezzatura in ogni caso non è mai inferiore ai 30 giorni.
Ed ora passiamo ai cicoli, i ciccioli.
A Napoli, tanto per cambiare, si preparano diversamente, utilizzando le pancette intere.
Cotte a 200°C in particolari caldaie a doppio fondo, per evitare qualsiasi contaminazione dovuta al vapore, con il tempo di cottura che varia a seconda della pancetta, in quanto ognuna è diversa dall’altra e sta all’addetto alla cottura controllarne l’andamento, girare la pancetta quando è necessario e toglierla dal fuoco quando è pronta.
In media le pancette impiegano circa tre ore e mezza a cuocersi completamente. A questo punto, una volta tolte dal fuoco, le pancette vengono depositate in appositi stampi e pressate per circa 24 ore.
Dopo la pressatura si passa all’abbattitura. In seguito si passa alla fase del raffreddamento: vengono fatti raffreddare a una temperatura che varia dagli 0 ai 4 gradi.
Solo a questo punto i cicoli vengono confezionati, in quarti, ottavi o a fette.
4. I formaggi
I formaggi sono sostanzialmente due, ma anche qui la diatriba su quali effettivamente scegliere, è annosa ed articolata.
Cominciamo dal provolone, da tanti chiamato semplicemente “Auricchio”, un nome ormai entrato nell’uso comune.
Non so in quanti lo sappiano, ma il provolone nacque a San Giuseppe Vesuviano, in provincia di Napoli.
Nel lontano 1877, Gennaro Auricchio lì fondò la sua primissima azienda casearia ed inventò quel caglio speciale che ha reso il suo provolone unico ed inimitabile.
Inimitabile anche perché la ricetta originaria è tutt’oggi un segreto ben custodito e difeso dall’azienda, infatti ancora oggi il Provolone Auricchio è prodotto e formato a mano secondo l’antica ricetta del fondatore, mentre le macchine e le moderne tecnologie hanno il solo scopo della tutela della sicurezza alimentare del consumatore.
Il provolone è, perciò, esattamente uguale a quello di 140 anni fa.
Lo spostamento delle attività produttive in Pianura Padana, nel moderno stabilimento di Pieve San Giacomo, alle porte di Cremona, è del 1976, per ottimizzare la produzione dopo che Gennaro Auricchio nei primi anni del ‘900 aveva già mandato i propri figli al nord per trovare altro latte, dato che la produzione in Campania, visto il grande successo internazionale, non era più sufficiente.
C’è chi lo usa dolce, chi lo usa piccante (più stagionato), ma in tanti lo preferiscono semi-piccante.
Qui, per non farci mancare nulla, abbiamo “rincarato la dose” utilizzando del caciocavallo podolico giovane, di origine lucana, presidio Slow Food.
Il secondo formaggio è il pecorino, utilizzando qui quello romano.
Volendo però “nobilitare” e caratterizzare maggiormente il nostro casatiello possiamo pensare di utilizzare il pecorino bagnolese, che nasce dal latte della pecora omonima, detta anche malvizza, che è una particolare tipo di ovino che viene allevato in provincia di Avellino e precisamente nel territorio del comune di Bagnoli Irpino.
Formaggio a pasta grassa e dura, di colore paglierino e di gusto piccante, presenta una crosta dura e compatta, gialla tendente al marrone. Dal procedimento di produzione tradizionale, dopo 5-6 mesi di stagionatura, sarà molto piccante, e potrà essere grattugiato.
Altrettanto utilizzabile anche quello prodotto nella piccola località di Carmasciano, divisa tra i comuni di Rocca San Felice e Guardia Lombardi, caratterizzato da un’accurata preparazione interamente artigianale.
A differenziarlo dall’altro prodotto, la particolare tecnica che, dopo circa 48 ore di riposo, prevede la scottatura delle forme nel siero caldo, che poi vengono successivamente sfregate con sale e, dopo 10 giorni, spennellate con olio d’oliva, vino bianco e aceto.
Si ottiene un pecorino dal sapore unico che, dopo adeguata stagionatura, può essere grattugiato.
5. Preparazione e cottura
Ed ora dedichiamoci all’impasto, che prepareremo secondo il classico stile napoletano.
Versiamo tutta la farina sul piano di lavoro (altrimenti useremo una ciotola capiente) e prepariamo il classico “cratere”.
Versiamo nel centro l’acqua e cominciamo delicatamente a creare una crema, sciogliendo contemporaneamente il pezzetto di lievito. (Possiamo anche sciogliere il lievito nell’acqua)
Mettiamo il sale, che con il lievito poco d’accordo va, sul bordo superiore del nostro cratere, leggermente verso l’esterno, cercando di non unirlo subito al nostro impasto.
Continuiamo a impastare energicamente per circa 10 minuti, fino a che non rimanga nulla sul piano di lavoro con l’impasto liscio come la seta e di buona consistenza.
Punto d’attenzione: avrete notato l’assenza dello strutto nell’impasto, e c’è un motivo, v’assicuro.
La ricetta del casatiello dello chef Sorrentino prevede (convergendo così con i miei saperi) l’aggiunta dello strutto solo sull’impasto steso e poi, dopo l’inserimento del ripieno, nella successiva fase di formazione del “salsicciotto”; di contro nella preparazione del tòrtano viene utilizzato lo strutto (la sugna, come si dice a Napoli) già fin dalla fase iniziale di formazione dell’impasto, intrudendo la farina appunto con lo strutto.
Tagliamo a cubetti salumi e formaggi.
Ed ora il segreto dello chef: battiamo 2 uova intere in un piatto (oppure in un capace bicchiere) con poco sale, pepe macinato e pecorino.
Poi prendiamo la pasta lievitata, stacchiamo un pezzo grande quanto un panino (eventualmente possiamo anche rifilare un pezzo di pasta dopo aver steso l’impasto), e stendiamola su un piano di lavoro infarinato, aiutandoci eventualmente con un matterello.
Spalmiamo “la pettola” ottenuta (l’impasto steso) con lo strutto, poi cospargiamo la superficie con il misto a cubetti, l’uovo battuto col formaggio, il pecorino grattugiato al momento e una manciata generosa di pepe nero schiacciato con un batticarne, non usiamo quello macinato.
Arrotoliamo la pettola su se stessa, come a voler creare un “salsicciotto” ripieno, continuando a spalmare la sugna tra un giro e l’altro.
Chiudiamo le due estremità ripiegandole per evitare la fuoriuscita del ripieno durante la cottura.
Ungiamo di sugna uno stampo e adagiamo il “salsicciotto” al suo interno.
Punto d’attenzione: il casatiello si fa nel “ruoto”, una caratteristica teglia circolare con un “rialzo” centrale e bordi alti che permette la lievitazione e di avere, una volta cotto, una forma alta e circolare.
Fatto di alluminio leggero, con i bordi leggermente obliqui, dal diametro che cresce verso l’alto.
Le donne di una volta sostenevano (giustamente) che bisognava ungere anche la parte superiore del “rialzo” centrale perché durante la lievitazione l’impasto cresceva tanto da coprire il “rialzo” centrale e quindi ungerlo significava non far attaccare il casatiello.
Laviamo bene le uova rimaste, e disponiamole (bagnate, altro consiglio dello chef) sulla superficie fino a farle affondare a metà.
Con la pasta tenuta da parte formiamo delle sottili striscioline disponendole a croce sulle uova.
Spalmiamo la superficie del casatiello con la sugna rimasta e facciamolo lievitare fino a triplicarsi di volume, quando insomma si è superato abbondantemente il bordo superiore dello stampo.
Punto d’attenzione: la nostra masterclass non si è chiaramente conclusa con la cottura dopo la lunga lievitazione (io ho completato questa fase a casa in poco più di sette ore), ma con l’assaggio delle preparazioni dello chef nel forno a legna delle pizze ormai spento, come da tradizione.
In forno ad una temperatura intorno a 165° C per circa 1 ora e 30 minuti, coprendo eventualmente con un foglio d’alluminio la parte superiore qualora dovesse sembrare troppo colorata.
Punto d’attenzione: tradizionalmente, va senza dirsi, veniva cotto nel forno a legna.
All’epoca, le donne napoletane che preparavano il casatiello in casa, lo accudivano con tanta cura dalla preparazione fino al completamento della lievitazione, ricoprendolo l’impasto con una coperta per non “fargli prendere freddo” per poi portarlo a cuocere presso i forni a legna dei panifici aspettando con impazienza la cottura per vedere “come era venuto”.
Noi, dopo la cottura, apriamo leggermente il forno e lasciamo inizialmente raffreddare all’interno.
Successivamente, raggiunta una temperatura “umana”, lasciamo completare il raffreddamento all’esterno del forno.
Dopo adeguato riposo, di almeno dieci ore, e comunque quando sarà completamente freddo, sformiamo il rustico ottenuto, se tutto è stato fatto correttamente dovrebbe staccarsi senza problemi.
Va servito a fette, con un uovo per ogni porzione.
Buon appetito!
[Immagini: Antonio Allocca, Vincenzo Pagano, Massimo D’Alma. Link: aifb.it; bressanini-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it; ristorazioneitalianamagazine.it; agricoltura.regione.campania.it; vesuviolive.it; rossopomodoro.it – Piergiorgio Giorilli, Pane & Pani, Gribaudo editore]
La ricetta scientifica spiegata in 5 punti
Cacio e pepe
Pasta, patate e provola al forno
Ragù napoletano
Papaccelle ‘mbuttunate
Focaccia messinese
Risotto alla parmigiana
Pasta e fagioli
Cartellate pugliesi
Tortelli di zucca
Pastrami di manzo
Cassata siciliana
Spaghetti con le vongole
Pasta alla genovese
Pizza in pala alla romana
Cassoeula
Ossobuco alla milanese
Crêpes
Carbonara
Pasta, patate e provola di Nennella
Ragù alla bolognese
Lasagne
Chiacchiere di Carnevale
Zeppole di San Giuseppe
Spaghetti al pomodoro
Cotoletta alla milanese
Torta salata con carciofi e ricotta
Orecchiette con cime di rapa
Taralli pugliesi con glassa di zucchero