CassϞla: la ricetta scientifica spiegata in 5 punti
Sono pazzo ad affermare con assoluta convinzione che la cassoeula è un piatto con origini chiaramente meridionali.
Ma come – vi chiederete stupiti – il piatto più popolarmente tipico della cucina lombarda, lo stufato delle parti povere del maiale con le verze, non avrebbe origini lombarde? Un vero affronto.
Non ci credete? Provo a convincere anche voi.
Iniziamo con il dire che il dubbio m’era venuto tempo fa, quando avevo “studiato” la minestra maritata, la minestra nella quale le verdure si uniscono, si “maritano” appunto, con la carne ed il brodo da essa ottenuto: uno dei signature dish della “tradizione” napoletana.
A crearmi il dubbio una vera autorità in campo partenopeo, ovvero Raffaele Bracale direttamente dalle colonne del suo blog.
“il nome di pignato grasso, è espressione che traduce quasi i termini olla podrida, che è il nome con cui questa preparazione è e fu (sin dal 1200) in uso in Ispagna.
E furono infatti proprio gli spagnoli durante le loro dominazioni ad importarla dapprima a Napoli (1300 ca) e poi anche in Lombardia (1600 ca) dove fu l’antenata di quella oggi nota con il nome di cassoeula”
Però io, curioso ed “eretico”, ho voluto sentire anche l’altra campana, ovvero chi racconta della cucina lombarda in maniera storicamente “rigorosa”. È il portale Storie dimenticate, progetto editoriale che punta a raccontare luoghi, quartieri, città, aziende e persone della Lombardia, a fornire la conferma, rincarando anche la dose.
Secondo loro è Ruperto de Nola (con lo pseudonimo Mestre Robert), un cuoco spagnolo vissuto tra il XV e il XVI secolo, uno degli artefici (o colpevoli, dipende da che lato si guarda).
“Mestre Robert diede alle stampe un libro di cucina, il primo in assoluto in lingua catalana, il “Llibre del Coch”. Il libro, scritto in Italia, dal momento che Mestre era capocuoco del monarca partenopeo Ferrante I, fu un grande successo.
All’interno del libro c’è una ricetta che ci interessa particolarmente, chiamata “Cassola de carn”, il cui ingrediente principale era il pollo.”
Ma per capire meglio bisogna fare facciamo un salto nella sua terra d’origine, la Spagna.
“Durante la cacciata degli arabi dalla penisola iberica, finì nelle mani degli spagnoli un recipiente di cottura insolito. Era in terracotta, svasato e con l’interno vetrificato. I mori lo chiamavano “qasūla”. Veniva utilizzato per la preparazione di stufati di montone e di pollo.
Il “qasūla” aveva una peculiarità, era facile da trasportare, di misura intermedia, una vera novità per l’epoca. E fu così facile esportarlo.”
Ancora in Spagna, nel bel mezzo della Reconquista.
“I marrani, ovvero ebrei spagnoli costretti a convertirsi al cristianesimo, come atto di abiura si videro obbligati a sostituire le carni bovine, ovine e avicole con quelle del maiale. Era una sorta di prova della veridicità della loro conversione.
Il risultato di questa trasformazione culinaria fece sì che il tipico piatto ebreo chiamato “adafina” (brodo di montone, ceci e cavoli) incappò in una variante: nacque così la famosa “olla podrida” (letteralmente “pentola imputridita”).”
L’inclinazione spagnola ad aggiungere anziché togliere fecero il resto: sorsero centinaia di adattamenti che contaminarono anche gli stufati.
Un retaggio, questo, arrivato fino ai giorni nostri. Basti pensare alle innumerevoli varianti provinciali lombarde della cassoeula.
E senza voler infierire oltre, nel sud d’Italia, nel 1773, Vincenzo Corrado, cuoco, filosofo e letterato napoletano, propone la ricetta per il “grugno di porco lesso” che va servito su “pottaggio di cavoli”.
Signori miei, per trovare la prima ricetta lombarda del piatto bisogna attendere il 1826 e la prima edizione de “Il cuoco senza pretese” del comasco Antonio Odescalchi.
Altra storia poi che la cassouela sia legata a una particolare ricorrenza religiosa, la festa di Sant’Antonio Abate, fondatore del monachesimo moderno e protettore degli animali domestici, e spesso raffigurato con accanto un maiale che ha al collo una campanella.
La ricorrenza cade il 17 gennaio, giorno in cui la Chiesa benedice gli animali, e la data segnava la fine del periodo delle macellazioni dei maiali.
Ecco perché viene anche chiamata “il piatto della festa di Sant’Antonio”.
Poi, come ho già accennato, mille sono le varianti, ed è difficilissimo identificare una ricetta “base”.
Se nel milanese si utilizzano le orecchie ed il musetto del maiale, nella tradizione comasca non vi sono i piedini e il battuto di verdure, ma viene aggiunto il vino bianco e la testa.
In Brianza poi è più asciutta rispetto a quella milanese, più brodosa, inoltre vengono utilizzati anche i verzini (come nel Varesotto) o i cotechini, piedino, codino e le verdure non sono battute ma a pezzetti.
E potremmo continuare.
Ed io, come già successo in altre occasioni, ho dovuto mediare tra diverse ricette, per arricchire la nostra web serie della ricetta scientifica cercando, ove possibile, di migliorare la ricetta.
Sia chiaro, a fine cottura, il piatto dovrà comunque essere assolutamente unto e tachénto, che in dialetto milanese significa “appiccicoso”.
La ricetta scientifica della cassϞla
Ingredienti (per 4 persone)
1 kg di verza da pulire
1 piedino di maiale
1 orecchia di maiale
1 codino di maiale
1 musetto di maiale
400 g di puntine di maiale
350 g di verzini (piccole salamelle fatte con l’impasto della salsiccia)
150 g di cotenna di maiale
1 coscia di pollo
2 foglie di salvia
2 foglie di alloro
2 rametti di rosmarino
2 carote piccole
2 gambi di sedano
2 cipolle dorate piccole
30 g di burro
30 g di triplo concentrato di pomodoro
1 bicchiere vino bianco secco
Acqua qb
Sale e pepe qb
1. Il brodo
Taglieremo a pezzi grandi ed irregolari, sedano, carota e cipolla, a cui aggiungeremo i gambi di prezzemolo e le foglie d’alloro.
Ripuliremo la coscia di pollo sotto l’acqua corrente per eliminare eventuali residui.
Provvederemo poi alla cottura, lasciando sobbollire per almeno 1 ora e ½ con il fuoco bassissimo ed il coperchio a ¾, ovvero lasciando sfogare il vapore abbastanza liberamente.
Trascorso il tempo, scoleremo la carne di pollo, che utilizzeremo per altre preparazioni.
Chiaramente terremo da parte il brodo, dopo averlo filtrato con un colino a maglia fina.
Si vabbè, ma per far ciò partiremo da acqua fredda o da acqua calda?
Hervè This, nel suo Pentole e Provette, autentica pietra miliare nel “racconto” della scienza in cucina, ci parla di Justus von Liebig, il famoso chimico tedesco, quello che tutti conosciamo per i suoi estratti di carne.
Liebig sosteneva che per fare un buon brodo, bisognava partire necessariamente dall’acqua fredda.
Sappiate però che questa affermazione è stata sperimentalmente dimostrata come falsa.
Hervè This, il nostro scienziato, ha diviso un pezzo di carne in due parti uguali, mettendone una metà in acqua fredda, l’altra in acqua bollente; ha riscaldato e pesato i due pezzi di carne ad intervalli regolari ed ha rilevato come, dopo circa un’ora di cottura, dopo una differenza iniziale, la perdita di peso dei due pezzi di carme fosse praticamente la stessa.
Ha verificato che in seguito, anche prolungando la cottura di diverse ore, la massa non variasse più.
Per di più, in degustazione alla cieca, ha rilevato come non fosse possibile distinguere un brodo dall’altro.
Il risultato? Che la teoria del brodo partendo da acqua fredda, improbabile in teoria, è falsa in pratica.
Potreste però non avere voglia di “complicarvi la vita”.
Beh, partite pure da acqua fredda, con meno difficoltà operative. Il risultato, come verificato, sarà praticamente lo stesso, e nessuno vi accuserà di “lesa maestà”.
2. Le carni
Nelle millemila versioni esistenti la certezza è una sola: utilizzeremo solo carne di maiale.
È il principio “del maiale non si butta via niente” la vera forza trainante di questa ricetta, arrivata praticamente intatta nei suoi principi base fino ai nostri giorni.
I verzini (salsiccette fresche che prendono appunto il nome dalla consuetudine di cuocerle con le verze), le costine, la cotenna, il piedino, il musetto, il codino.
Tutti tagli poveri, coriacei, molto grassi e saporiti. E no, non è ricetta da “educande”.
Comunque lo ricorderò fino a stancarmi: non tutte le ricette sono uguali, non tutte utilizzano le stesse parti di maiale, anzi, alcune prevedono l’uso esclusivo di pollo o anche di oca.
La carne di maiale, però, non posso non rammentarlo, ha rappresentato (e rappresenta) un discreto spauracchio per i rischi che si corrono nel mangiarla non cotta a dovere.
In questi casi si corre il rischio di contrarre la trichinellosi (in passato chiamata trichinosi). Questa malattia infettiva è causata da un parassita che si localizza inizialmente nell’intestino per poi trasferirsi nei muscoli. L’uomo la può contrarre esclusivamente per via alimentare, attraverso il consumo di carne cruda o poco cotta che contiene le larve di questo parassita.
Sappiate che il congelamento (-30 °C) uccide il parassita solo se la bassa temperatura raggiunge il cuore del prodotto per almeno una settimana. E che la cottura a 65 °C nel cuore del prodotto, per almeno un minuto, uccide il parassita. A nulla servono salagione, affumicatura, conservazione sott’olio o sotto strutto.
Se ne volete sapere di più, vi consiglio la lettura di questo post di Dario Bressanini dove parla del maiale alla birra.
3. La verza
La verza o cavolo verza, detta anche cavolo di Milano (o cavolo lombardo e cavolo di Savoia), è una varietà di Brassica oleracea simile al cavolo cappuccio, ma a differenza di questo presenta foglie grinzose, increspate e con nervature prominenti.
Viene coltivato in varie zone d’Italia ed è un ortaggio molto conosciuto.
Di origine antichissima, il cavolo verza è coltivato soprattutto nelle regioni centro-settentrionali d’Italia.
Il suo utilizzo in cucina è diffuso in gran parte d’Europa e in molte regioni italiane, soprattutto previa cottura e per la preparazione di zuppe e minestre.
La preparazione “tradizionale” prevede la cottura con le verze.
E sempre per consuetudine popolare (oggi non è proprio così), questi ortaggi prima di essere bolliti nel tegame con il maiale devono subire il primo gelo invernale, che ne accorcia i tempi di cottura e li rende più teneri.
4. Le cotture preliminari
Tutti i piatti che prevedono l’unione di ingredienti diversi necessitano di preparazione separata, spesso lunga e particolare.
Dobbiamo quindi prepararli separatamente, ognuno secondo le sue modalità, e riunirli solo in un secondo momento. In questo caso partiamo da piedino e cotenna ed orecchio in una pentola e codino e musetto in un’altra.
Diverse le operazioni preliminari.
Innanzitutto vanno lasciati in acqua fredda per una giornata intera cambiandola spesso.
Poi passati su una fiamma per toglierne i peletti superficiali.
Va poi raschiata con un coltello la cotenna, così da toglierne il grasso in eccesso.
E vi consiglio di passare su una fiamma anche l’orecchio, così da pulirlo da eventuali peletti e poi di tagliare via la parte più dura (se, come altre operazioni di taglio, non le ha già fatte il macellaio).
Prepareremo due pentole d’acqua e metteremo a bollire in una il piedino, le cotenne e l’orecchio precedentemente puliti; in un’altra pentola il musetto ed il codino, leggermente diversi come consistenza.
Effettueremo una precottura: con questa operazione elimineremo un po’ di grasso in eccesso, così da rendere il piatto più leggero.
Vanno portati ad ebollizione partendo da acqua fredda e poi raffreddati con acqua corrente, ripetendo questa operazione 3 volte, eliminando così ogni residuo.
Ogni volta, al bollore, manterremo sul fuoco per 3 minuti piedino, cotenne ed orecchio e per 5/6 minuti la pentola con musetto e codino.
Vanno infine rimessi in acqua salata (con alloro, salvia e rosmarino) e fatti ribollire almeno 55/60 minuti fino ad ottenere la loro cottura.
Li faremo raffreddare e li taglieremo poi a pezzettini, mettendoli da parte.
Una precottura a parte per verzini e costine.
Chiamatemi fissato, ma io il sapore lo voglio costruire prima, ovvero anche qui provo ad ottenere il massimo dalla reazione di Maillard, come già avvenuto in altre preparazioni: senza condimenti, quindi, provvederemo a creare quella crosticina sulle carni che ci aiuterà dopo.
5. La cottura finale
I giochi sono praticamente fatti.
Tagliamo a dadini le carote e il sedano, la cipolla a rondelle.
Mondiamo la verza, eliminiamo il torsolo centrale con un incisione e, una volta aperta, laviamola sotto l’acqua corrente e teniamola da parte.
Porzioniamo la carne: cerchiamo pazientemente di disossare ogni metà di piedino che tagliamo poi in pezzi, la cotenna in listarelle non troppo piccole, mentre per quanto riguarda l’orecchia, tagliamo in pezzi dopo aver verificato che sia perfettamente pulita.
Tagliamo poi a pezzi non troppo piccoli anche il musetto, lasciando il codino come tagliato dal macellaio (io ho chiesto di tagliarlo in 4 pezzi).
Prendiamo una pentola alta in alluminio, abbastanza capiente, e mettiamo a soffriggere il nostro soffritto “anomalo” (sedano e carote a dadini, cipolla a rondelle), rigorosamente nel burro.
Chiaramente, ça va sans dire, attendiamo l’imbrunimento della cipolla, salando pochissimo e solo un attimo prima di inserire costine e verzini.
Punto d’attenzione: esiste una scuola di pensiero che a questo punto inserisce un mix di spezie precedentemente pestate nel mortaio.
Parliamo di un chiodo (uno) di garofano, noce moscata (un pezzetto davvero minuscolo), qualche grano di pepe nero, cannella in polvere (un “nonnulla” come direbbe Giorgione del GR, ma sul serio) ed un pizzico di sale grosso.
Io non sono di quell’idea, e preferisco solo una leggera macinata di pepe.
Mezzo bicchiere di vino bianco a sfumare, all’incirca 5/6 minuti, togliamo la carne.
Un paio di mestoli di brodo nel soffritto, a stemperare il concentrato di pomodoro.
Metà della verza tagliata e, dopo averla fatta appena appassire, reinseriamo costine e verzini aggiungendo la cotenna. Ancora un paio di mestoli di brodo, coperchio, almeno 15 minuti di cottura.
Trascorso questo tempo inseriamo tutte le carni rimanenti tagliate a pezzi, la verza restante, ancora brodo e copriamo.
Fuoco al superminimo ed almeno un’altra ora di cottura, o comunque finché la carne non si stacchi dalle ossa, a seconda del proprio gusto, rimestando delicatamente ogni tanto.
Correggiamo di sale e pepe, togliamo dal fuoco e facciamo riposare.
Se saremo pazienti attenderemo il giorno dopo per gustarla, sarà più saporita.
Altrimenti, non mi resta che augurarvi buon appetito!
[Immagini: Massimo D’Alma, La Cucina Italiana (verza)]
La ricetta scientifica spiegata in 5 punti
Cacio e pepe
Pasta, patate e provola al forno
Ragù napoletano
Papaccelle ‘mbuttunate
Focaccia messinese
Risotto alla parmigiana
Pasta e fagioli
Cartellate pugliesi
Tortelli di zucca
Pastrami di manzo
Cassata siciliana
Spaghetti con le vongole
Pasta alla genovese
Pizza in pala alla romana