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26 Giugno 2017 Aggiornato il 27 Giugno 2017 alle ore 09:03

DOOF, o della critica gastronomica inesistente e del food al contrario

Cos'è DOOF? Chiaro, il food visto e scritto al contrario. Lo hanno spiegato alla Cascina Torrette (sede del Mare Culturale Urbano), con un convegno
DOOF, o della critica gastronomica inesistente e del food al contrario

Cos’è DOOF? Chiaro, il food visto e scritto al contrario. Lo hanno spiegato alla Cascina Torrette (sede del Mare Culturale Urbano), con un convegno promosso proprio da DOOF, i fondatori Valerio Massimo Visintin, Samanta Cornaviera e Aldo Palaoro.

Convegno che aveva come scopo portare in primo piano tutte le magagne dietro al dorato mondo del food – “quello che i poteri forti vi nascondono”, “quelli che gli altri non vi dicono”, cose così.

Cinque diversi panel, relatori e moderatori, pubblico vario – con picchi di 60 persone e più, un unico fedele ascoltatore imperterrito fino alla fine, io – ma forse c’era anche qualcun altro. Uno di questi panel si intitolava Lo stato dell’arte della critica gastronomica.

1. La critica gastronomica: la tre regole base secondo Visintin

Uno dei panel più attesi, senza dubbio: ci si aspettavano scintille. A farle scoccare, oltre all’istrionico Valerio Massimo Visintin, Sara Bonamini del Gambero Rosso, Stefano Caffarri del Cucchiaio d’Argento, Luca Iaccarino di Repubblica (assente Andrea Cuomo del Giornale).
Qualche difficoltà in partenza (Bonamini non aveva previsto che il suo Mac avesse bisogno di un raccordo speciale per collegarsi al videoproiettore), qualche dileggio più o meno sottinteso verso i soliti obiettivi di VMV (Paolo Marchi, Enzo Paolo Vizzari [sic], Bottura e la cucina della nonna, e anche Andrea Cuomo), l’omaggio al Padre della critica gastronomica italiana, categoria peraltro decretata inesistente, Edoardo Raspelli – e la enunciazione delle tre regole-base della critica, mangiare in incognito, dire la verità (VMV è l’unico a dirla, ça va sans dire), bello stile – e via con la discussione.

2. La bella scrittura

Uno dei temi che sono ritornati più volte è stato quello della bella scrittura, dell’eleganza e così via. Che è un requisito necessario, anche se forse sarebbe più auspicabile una scrittura semplicemente – grammaticalmente – corretta. Secondo Iaccarino, la bella scrittura va bene per i giornali, altrove, online e guide, no; Bonamini sostiene che gli articoli scritti meglio sono più letti; mentre Caffarri non ritiene che sia così fondamentale, e forse ha ragione.

E se è pur vero che leggere una cosa “bella” fa piacere, è anche vero che la forma può, nel caso della critica, modificare un poco la percezione del giudizio. VMV e Iaccarino, ad esempio, fanno dell’ironia uno dei tratti caratteristici del loro stile: e un’affermazione ironica, bella da leggere, o un uso particolare della retorica, sono di per sé un giudizio (anche) critico. Dire, come VMV fa in ogni occasione presentazione discussione pubblica, o scrivere, che Bottura conosce in tutto 12 o 13 parole, cultura innovazione territorio…, è comunque dare una certa interpretazione, che si riflette sul tuo giudizio del suo ristorante. Anche se non lo scrivi in una recensione: perché tutto quello che uno scrive, o dice, nel sistema di comunicazione contemporaneo, ha lo stesso valore e la stessa visibilità, e non puoi dire ah ma lo stavo dicendo a 10 persone, ah ma lo stavo scrivendo sul mio blog.

3. Le piole che frequenta Luca Iaccarino hanno delle belle facce

Iaccarino si occupa di piole “perché mi piace, mi piace la cucina popolare, tradizionale, mia nonna cucinava malissimo, e come contrappasso sono andato a cercare nonne che cucinassero bene. Ne ho trovate tante, grazie al cielo. Mi piace molto mangiare bene, mi piace molto il fatto di essere in un posto accogliente, che i proprietari siano simpatici, che la sala non sia piena di facce di merda –questo è un problema grosso di tanti ristoranti, tu non sei a tuo agio perché gli altri clienti non ti piacciono. Questo non deve succedere. E quindi mi trovo più a mio agio nelle osterie, dove non devi dimostrare niente. Questo non produce tutto quel côté di quei privilegi prodotti dalla frequentazione dei grandi chef. Andando a caccia di piole e di osterie tutto il glamour viene meno, non diventi amico di Bottura, non ti si offre una cena da 300 €… Io tendenzialmente frequento gente ostile, che quando dico che lavoro per un giornale si incazzano come delle iene, delle persone che pensano che i giornali siano il male, e che quindi mi bistrattano. Forse sono masochista.”

D’accordo, era un intervento in un convegno; d’accordo, esistono le iperboli: ma a me, questo voler dividere le facce a seconda dei locali frequentati, giudicare per forza la gente in base alla classe sociale, ai soldi, mi provoca sempre più un senso di soffoco, di chiusura alla gola. Ci possono essere facce di m****a dappertutto, e il fatto che possano esserlo o meno dovrebbe equivalere a l’essere biondi o mori, onesti o ladri, alti o bassi.

4. Sara Bonamini e i collaboratori del Gambero

Bonamini – da 11 anni al Gambero – conferma che nessuno fra i collaboratori, specie giovani e all’inizio, vuole andare nelle piole e nelle trattorie (ovviamente, ci vengono mandati lo stesso). Diversi spunti interessanti, nel suo intervento, sul lavoro che si fa al Gambero nella ricerca e selezione del personale critico, dei requisiti necessari, dei tipi di persone che si propongono e si selezionano.

La formazione ideale: base umanistica, cultura di base comunque forte. Anche se poi nessuno del panel ha letto Il Ghiottone Errante di Paolo Monelli, la prima guida enogastronomica d’Italia (1935) – lo abbiamo scoperto in seguito a una domanda dal pubblico. Io ce l’ho, anche se ne ho letto solo dei pezzi qua e là. Ci vuole anche una formazione giornalistica per essere in grado di gestire e differenziare i vari media, modulando il linguaggio (anche se ho molti dubbi sul fatto che la formazione giornalistica ti dia questi mezzi); e una formazione specifica, gastronomica, e avere sviluppato una conoscenza generale della cucina, con un aggiornamento costante. E – aggiunge VMV – oltre alla competenza la lealtà verso il lettore.

Obiezione dal pubblico: un ristoratore (a cui peraltro è stato offerto di entrare nella guida del Gambero a pagamento, ovviamente non dal Gambero) chiede dove stia tutta questa competenza, se la Trattoria della Befa è stata segnalata per sei anni di seguito nonostante il cuoco fosse defunto. La risposta, anche qui ovvia, è che se il redattore che se ne è occupato non lo ha segnalato, la redazione non poteva saperlo. O magari avrebbe potuto – è un mondo abbastanza piccolo. Ma suona strano che nessun lettore, amico, ristoratore se ne sia accorto, e lo abbia segnalato.

[La redazione del Gambero Rosso ci comunica che in realtà la Trattoria della Befa è comparsa solo nella loro guida Foodies 2011 – quindi quanto lamentato dall’interlocutore fra il pubblico era sbagliato. Sara Bonamini ha dato la risposta/giustificazione più logica, non avendo presente la cronistoria di tutti i ristoranti di tutte le guide eccetera – e, ribadisco, è strano che nessuno abbia segnalato al Gambero – o, a questo punto, all’altra guida – l’errore. N.d.R.]  

 

5. Gli improvvisati

Dal lato della “selezione del personale”, Bonamini traccia una serie di profili, che includono i dilettanti allo sbaraglio, i talentuosi tout court, i protégé a vario titolo – occasione per VMV per ri-citare Enzo + Paolo (figlio) Vizzari, anche questa una battuta ormai entrata in repertorio. Che da un lato si può deprecare come favoritismo – ma allora è vietato per un figlio ripercorrere le orme del padre? Come del resto ha fatto Visintin – casi e circostanze diverse, per carità.

Una voce dal pubblico proclama: ma conosciamo anche un altro giovane ampiamente sponsorizzato, Lorenzo Sandano – lo sappiamo tutti. Da chi? chiede VMV. Ah ve lo dirò poi – afferma tronitruante l’interlocutore. “Ma no, perché? Diccelo adesso!” propone un’altra voce – la mia – dal pubblico. Domanda ovviamente caduta nel vuoto, tutti bravi a lanciare sassi e a nascondere la mano e il braccio.

Bonamini poi rileva come sia colpa degli editori, che non investono più sui redattori – e aggiungo io di una crisi generale, economica e non solo. Si crea un vuoto in cui emergono o provano ad emergere (“mi dispiace dirlo”, ma lo dice, Sara) blogger, siti personali, persone (“persone – ma non chiamiamole persone,” chiosa VMV, il cui istrionismo aumenta) improvvisate – e cita, con rara delicatezza ma acuta acribia giornalistica, una ragazza diciottenne, Francesca Feresin, nome noto ai lettori di Scatti di Gusto.

Volevo riportare una mia piccola esperienza, un confronto con una ragazza di 18 anni, di cui faccio anche nome e cognome, ma non perché voglio riportare un’esperienza negativa, ma perché comunque vi possa dare un’idea: è Francesca Feresin, una ragazza che ha fatto comunque tante esperienze, ha 18 anni, ed è stata tante volte a cena fuori con i genitori, e questo l’ha spinta a pensare di poter diventare un giorno giornalista enogastronomico. In realtà lei vuole fare il medico ma anche il giornalista enogastronomico [rigorosamente al maschile, N.d.R]. E questo vi dà proprio l’idea. Non sa scrivere, nel senso che ha anche buonissimi spunti, forse un pochino di talento, però già dei siti di settore la stanno facendo scrivere, la stanno proprio buttando nell’arena, Scatti di Gusto e adesso Agrodolce. Ed è già entrata – ed è la cosa che mi ha fatto profondamente terrore –in una dinamica da cui si deve proprio fuggire, che è quella proprio dell’andare alle cene stampa, farsi delle foto con cuochi, taggare il giorno dopo nell’articolo tutto l’entourage che ha trascorso con lei la serata e avendo sotto tutta una marea di clamore da parte di chi – del cuoco che ha cucinato la sera prima, dell’ufficio stampa che l’ha invitata,…

Per la cronaca, gli editoriali del Gambero Rosso rivista (almeno per i numeri che ho comperato) sono spesso funestati da errori – che è un altro modo di non saper scrivere… E – a parte la difesa d’ufficio di Francesca, che peraltro non conosco e che ho saputo ha mandato in correzione proprio alla Bonamini, che si era offerta di aiutarla, un suo articolo – ho l’impressione che in tutti questi discorsi ci sia, di fondo, un’incomprensione di quello che sono i nuovi media e le nuove modalità della comunicazione, tag compresi. Che non vuol dire che si debba o possa scrivere male, mentendo, facendosi pagare, o solo di chi viene a letto con te: ma che le figure professionali cambiano, i comunicatori cambiano, l’editoria cambia. Chi è il critico gastronomico? Non c’è (grazie al cielo, forse) un albo professionale: oggi, il critico o giornalista gastronomico è spesso un ex-giornalista sportivo, o di motori, ad esempio. Quanti sono stati a scuola di cucina? Chi ha un diploma in gelateria che lo autorizza a dire che questo gelato non è buono? In base a quale laurea in pizzologia una pizza viene definita più o meno napoletana? Solo chi esce da Alma o da Pollenzo può (auto)fregiarsi dell’alloro della Critica Gastronomica?

Ai lettori le ardue sentenze.

 

Emanuele Bonati
"Esco, vedo gente, mangio cose" Lavora nell'editoria da quasi 50 anni. Legge compulsivamente da sessant'anni. Mangia anche da oltre 60 anni – e da una quindicina degusta e racconta quello che mangia, e il perché e il percome, online e non. Tuttavia, verrà ricordato (forse) per aver fatto la foto della pizza di Cracco.
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