Enologica 2011. L’anguilla arrosto di Maria Grazia Soncini
A Faenza, venerdì 18 dicembre, parte la nuova edizione di Enologica, il Salone del Vino e del prodotto tipico dell’Emilia Romagna. Un appuntamento con un cartellone molto ricco che vedrà Scatti di Gusto impegnato nel Caravanserraglio, lo spazio culturale che vuole promuovere l’idea di un luogo di accoglienza che si nutre di scambio, di comunità e di confronto. Se ad Enologica il vino ha un ruolo di primissimo piano, il cibo non è da meno con i tanti espositori del Tipico. E poi c’è il Teatro dei Cuochi, lo spazio in cui i piatti avranno il giusto risalto con 40 posti disponibili a 5 euro prenotabili via telefono allo (+39) 0546.621111 oppure scrivendo via mail.
Tappatevi il naso e tuffatevi. Perché poggiare i piedi su questo brandello di campagna attorno a Codigoro significa immergersi sei metri sotto il livello del mare e dodici sotto la piena del Po. Una liquidità immaginaria che pullula di fantasmi e risonanze, l’epica western della bonifica compiuta negli anni del fascismo, al posto degli indiani nuvole di zanzare, stormire di canne e gracidare di rane; mentre il Po qualche chilometro più in là ammonisce sulla precarietà della vittoria e all’orizzonte torna il mito. Sembrerebbe un panorama spoglio, cartesianamente ortogonale, con i suoi pioppi sparuti incastonati fra i canali e i campi pallidi; invece è un luogo magico. Una piccola patria che trova il suo punctum nella Capanna di Eraclio, il ristorante deliziosamente d’antan che ancora inalbera l’insegna di “Osteria con cucina”.
Pochi locali in Italia potrebbero consentirsi tutto questo. Le tovaglie bianche profilate di merletto, le credenze di legno, le galline razzolanti nel dehors. E dietro le quinte la cappa e i mobiletti smaltati anni ’60 della cucina completa di camino, con la porta socchiusa sulla cameretta dentro la quale si intravvede un’anziana signora, intenta a preparare la maionese con il cucchiaio di legno che sbatte sulla ciotola. Sul pavimento il solco profondo di una crepa va e viene con le stagioni, segno di un terreno che respira e di muri simbiotici con la terra acquitrinosa. Il ritmo è quello scandito dagli orologi a pendolo delle salette: binario, inesorabile, eternamente ricorrente. E la nostalgia brilla come un lusso che altrove suonerebbe fesso, al pari del kitsch necrofilo e posticcio che cinge d’assedio la “cucina regionale”.
Della memoria dell’acqua hanno discusso a lungo gli scienziati; ma nella liquidità delle narrazioni padane sguazza con innata padronanza la cuoca sirena Maria Grazia Soncini, con la complicità del fratello sommelier Pierluigi. Un’apnea nella storia che sa di avventura e lascia gli ospiti storditi e felici. Oltre che sazi. L’anguilla in umad, grigliata e poi finita al forno, ci sfida come un esercizio mnemotecnico dove l’eccellenza del prodotto getta l’amo della forchetta nel subconscio, rimescolando i precordi. Ma quel boccone non sarebbe lo stesso senza gli innumerevoli tasselli che ne puntellano il gusto. Dalla vestale canuta sullo sfondo, nient’altri che la mamma della cuoca, all’eponimo papà Eraclio, che curvato dal tempo e menomato nella vista risveglia reminescenze omeriche che credevamo sepolte. Dai rumori campestri dei trattori che si fanno strada fra le esalazioni dei canali alla patina del tempo, che si è posata sulle cose facendole più vere e più pesanti. Anni luce dalle girandole post-moderne e virtuali che frullano l’ingrediente in un niente che nienta di heideggeriana memoria. “Quello che tu racconti e che tu vedi al ristorante in parte è il frutto della pigrizia, ma in parte ci piace, perché è come una scarpa vecchia. Che ti piace, che è tua, che è modellata sul tuo corpo”, commenta Maria Grazia.
In origine furono i nonni Luigin e Maria, pionieri di un avvincente “anguilla western”. Il primo edificò la casa negli anni ’20 sul terreno appena bonificato, di fronte a una strada trafficata da birocciai addetti al trasporto delle merci. Si trattava di un’osteria con negozio di alimentari dove si serviva solo vino, giacché l’istituzione ristorante era di là da venire. “Pan e gaban mai zmangari a ca’”, recitava la saggezza popolare, e di fatto il cibo lo si portava da casa. La sera c’era anche la musica, orchestrine del luogo, soprattutto fisarmoniche. Insomma quella casupola era un saloon vernacolare che fungeva da punto di ritrovo per tutto il circondario. Nonno Luigin era cacciatore e pescatore e stava via per giorni e giorni, così gravava tutto sulla nonna. E i figli da sfamare erano sette, tutti avviati su strade diverse, a parte Eraclio, che restò alla casa madre. Ma la ristorazione vera e propria arrivò solo nel 1962. “Mia mamma Vanda era molto brava a cucinare perché aveva lavorato in un’importante rosticceria di Bologna, dove facevano fino a 90 sfoglie al giorno per i tortellini. E ancora adesso alla Capanna stende la pasta al matterello. Aveva conosciuto mio papà perché veniva in vacanza dallo zio, fattore dell’azienda qui accanto. Ma mio nonno non voleva che si cucinasse, aveva messo il veto: ‘I sin fa preparar da so mujer’, ripeteva. Così abbiamo cominciato solo quando è morto.
I primi clienti sono stati gli operai della linea elettrica, che qui è arrivata nel ‘60. Noi avevamo il salame, c’erano la salumeria e l’osteria; ma loro chiedevano ai miei genitori se potevano cucinare qualche cosa per loro. E così è partito tutto.
Quando poi è arrivato il boom economico, la gente cominciava ad avere la cinquecento o la seicento, e sai qual era la meta? Venivano qui a mangiare la domenica a pranzo. E si spostavano in gruppo, mica in coppia come adesso. Andavano a far ‘la magnà’. A quei tempi mio papà aveva le barche, perché lui era un pescatore, ovviamente di frodo. Le teneva nel canale qui davanti, che è un canale di irrigazione rivolto verso nord; poi c’è il canale di scolo, fatto durante la bonifica per drenare le acque. Ed erano corsi già pescosi, dove si potevano catturare le anguille, i pesci gatto, le tinche e anche i lucci, perché erano molto puliti. Con le sue reti al mattino tirava su la pescata e la domenica quando arrivava la gente gli faceva: ‘Ci fai la spadellatina di pesce?’. Perché le esigenze del cliente di allora, che non era poi così diverso da oggi, erano semplici. Il pesce più piccolo si friggeva, mentre le anguille o i pesci gatto si facevano alla griglia. C’era anche la selvaggina, perché mio papà era cacciatore. Soprattutto lepri e fagiani; non gli acquatici, che vivono verso le valli litoranee, a una ventina di chilometri da qui, dove si spingeva mio nonno. Allora mia mamma faceva la lepre in umido, le pappardelle o il fagiano arrosto. E questo era il menu. Quando il ristorante è decollato, però, abbiamo iniziato a fare un po’ di commercio, e sono arrivati i fischioni, le anatre e le folaghe. Abbiamo cominciato anche ad allevare i maiali per fare i nostri salami. Per le verdure c’era l’orto, perché vigeva l’autarchia. Si trovava dove adesso c’è il canneto, vicino all’acqua, e ci crescevano radicchio, sedano, carote, cipolle, pomodori, melanzane… Oggi va di moda avere l’orto, ma io non ci credo più di tanto, mi puzza un po’ di marketing e burocraticamente è complicato. Anche se oggettivamente non è facile trovare ortaggi eccellenti, perché specialmente in queste zone scarseggiano. Qui non c’è mai stata una vera tradizione, contrariamente al Veneto e alla Romagna, dove vige il culto della stagionalità e delle erbe spontanee. Personalmente so andare a radicchio, ci vado ancora e per me è uno dei cibi migliori che esistano, soprattutto spadellato. A crudo lo servo con la cipolla e l’aceto insieme al pesce alla griglia, come si è sempre fatto, ma la nostra cucina non si è mai basata più di tanto sul binomio pesce-verdure. Ovviamente poi c’erano i polli nel cortile, perché non puoi avere una corte in campagna senza le galline. Sono cosa fra le cose, come noi della famiglia. Ci sono tuttora, ma al ristorante non possiamo usare nemmeno le uova per la maionese o per la sfoglia. Se lo fai in Francia sei lodato, mentre qui da noi vai in galera”.
Tu davi una mano da piccola?
Io sono nata e cresciuta in questa casa. E se sei figlia di ristoratori, non c’è un momento preciso in cui inizi. Ricordo che al mattino prendevo l’autobus sulla strada per andare a scuola, o magari andavo al cinema, e al pomeriggio passavano a prendermi in città perché bisognava aiutare. Di lavoro ce n’era soprattutto il sabato sera e la domenica pomeriggio, quando la gente aveva la macchina e usciva. Mio papà faceva arrivare 30-40 prosciutti da Langhirano, li mettevamo in soffitta e li servivamo con i nostri salami. Io stavo soprattutto in sala, oppure prendevo i peperoni sottaceto dolci che si vendevano nelle latte, li tagliavo a falde e li condivo con l’aglio e il prezzemolo. Facevano parte dei vassoi di sottaceti, come usava allora, con le cipolline fatte in casa e la giardiniera. Quindi le mani in pasta le ho sempre messe, anche se era l’ultimo mestiere che avrei voluto fare, perché mi sembrava scontato. Così mi sono iscritta a medicina. Ma negli anni ’80 sono scoppiati il boom economico e quello della ristorazione. Sono nate le prime riviste, che mostravano le cose in una maniera diversa. I vini non erano più bianchi e rossi anonimi in caraffa, ma tanti tipi diversi con i loro abbinamenti. I nostri genitori hanno lasciato carta bianca a me e a mio fratello Pierluigi, soprattutto in cantina, e ho deciso di lasciare gli studi.
Come è avvenuto il passaggio?
Non c’è stato un passaggio vero e proprio, diciamo che il menu si è ampliato. Perché prima c’erano il risotto di pesce o di caccia, le tagliatelle e nessun altro formato. Abbiamo cominciato a fare gli antipasti, cosa che prima non esisteva. Ricordo le cozze e le poveracce alla marinara, o le canocchie a vapore. Anche robe come le seppioline ripiene di insalata russa, che adesso mi sembrano talmente ingenue… Il pesce lo prendeva mio padre tutti i pomeriggi all’asta di Goro, dove i pescherecci fanno le 36 ore, cioè escono la notte e ritornano il giorno successivo al pomeriggio per vendere.
Quindi tu, vestale della tradizione, sei stata sedotta dalla nouvelle cuisine?
Sì, perché in quegli anni abbiamo avuto accesso mentale a cose che non conoscevamo, di cui non sospettavamo l’esistenza, e abbiamo visto improvvisamente tante sfaccettature nascoste. Le riviste svelavano un potenziale enorme da sviluppare. Ed era in corso la grande rivoluzione estetica di Gualtiero Marchesi, con il servizio al piatto. Ma la grande apertura mentale me l’ha data il Trigabolo di Corelli, un vero faro, che ha traghettato la ristorazione della zona dal risotto alla pescatora alla crema di crescione al midollo. Ci conoscevamo bene perché condividevamo l’acquisto di selvaggina. Giacinto Rossetti andava a caccia in Valle Sacchetta, ma quando c’era la cacciata la domenica bisognava prendere tutto il bottino della valle, perché il commercio non esisteva, e tanto meno i frigoriferi. Così ci spartivamo i selvatici. Anche mangiare da loro mi è piaciuto tantissimo. Il cibo non si riduceva a una cottura, ma era tutto un mondo di altre cose. Il Samsara. Unforgettable, nonostante tutte le differenze, perché io non cucinerò mai in quel modo. Ma è come una Ferrari, anche se non la guiderò mai, per me sarà sempre una bellissima macchina. Ricordo anche il Sambuco di Porto Garibaldi, che era molto elegante, aveva i fiori in tavola. Noi eravamo molto più poveri e allora usavo le bottigliette di Campari soda, quelle coniche, con dentro i fiori di campo. Erano gli anni in cui prendevano piede le prime manifestazioni, eventi dove sentivi spirare la grande gioia di condividere scoperte ed emozioni. Ed è lì che ho conosciuto Vissani, che sotto questo profilo è generosissimo, e altri colleghi che mi hanno arricchito.
Questa fase quanto è durata?
Perdura, nel senso che non c’è mai stata una soluzione di continuità. Anche se oggi c’è un ritorno alle cose naturali. E noi ci sguazziamo, perché abbiamo sempre fatto questo tipo di cucina, fondato sull’ingrediente. Se c’è stata un’evoluzione, è avvenuta nella consapevolezza tecnica delle cotture e nella grande volontà di servire la materia prima migliore. Perché il pesce buono si trova ancora, ma costa molto più caro e il cliente deve essere pronto ad accettarlo. C’è stato un periodo invece in cui mi sono sentita desueta, gli anni 2000, quando noi abbiamo continuato a modo nostro ma tutt’intorno la ristorazione vorticava. La grigliata per esempio è rimasta sempre la stessa, con la stessa mamma, lo stesso pesce e la stessa legna, i pioppi abbattuti qui davanti, i sarmenti di vite del pergolato e un po’ di carbone dolce scelto da noi. Nel 2001 abbiamo avuto un articolo di 5 pagine su Grand Gourmet, che per me rappresentava la consacrazione; ma in copertina c’era la carbonara di Adrià. Mi sono sentita come una canoa rispetto a un transatlantico. E non lo dico con risentimento, perché Ferran Adrià lo ammiro. All’inizio ero diffidente, mi sembrava quasi che non fosse un cuoco, ma i miei clienti hanno iniziato a descrivermi qualche piatto curioso. Poi l’ho visto sul palco di un congresso, ed ero molto prevenuta, ma quel che mi ha colpito sono stati la sua anima fanciullesca, il gioco, la meraviglia. Certo, qui alla Capanna è completamente diverso. È tutto molto casalingo, non esiste neanche una demarcazione netta fra il lavoro del ristorante e la vita famigliare. È come lavorare in un circo, anche se siamo stanziali. Tutte le sere dobbiamo montare lo spettacolo, tutte le mattine dobbiamo accudire gli animali. Quando mi metto la cuffia e la giacca prima del servizio, mi dico: “Ok, andiamo in scena. Comincia lo spettacolo”. E la vita privata segue.
Il pesce che cucini è ancora quello di Goro?
Prevalentemente sì, ma la flotta oggigiorno non è più così importante, per cui dobbiamo rivolgerci anche altrove, per esempio ad Ancona, sempre nell’Alto Adriatico. Mentre durante il fermo pesca andiamo a Porto Santo Stefano, sull’Argentario. Secondo la zona di pesca il gusto varia molto, perché la sapidità cambia. Per esempio le sogliole, i rombi e i soasi di Goro a mio giudizio sono i migliori, perché la bassa salinità si traduce in una maggiore finezza e lo iodato si smussa. Le anguille invece le prendiamo dalla Sacca di Gorino, dove l’acqua del Po si mescola al mare, cosicché è corrente e pulita; i pesci si muovono molto e hanno una livrea grigio azzurra, per mimetizzarsi sul fondale. Mentre l’anguilla del canale ha un gusto palustre e una colorazione più scura.
La patria sembra un po’ il filo conduttore di tutto il ristorante. Qui siamo in Emilia o in Romagna?
Siamo in Emilia, e da Ravenna comincia la Romagna. C’è anche un forte influsso veneto. Perché non esiste una cucina ferrarese codificata del Delta del Po, ma la cucina polesana del Delta del Po esiste eccome, e andando oltre c’è quella più elegante di Venezia. Da queste parti, per fare qualche esempio, prepariamo le sarde in saor, la polenta bianca con il pesce, i risotti. Che un tempo si approntavano con il riso originario, come fa ancora qualche trattoria. Noi per affrancarci abbiamo provato il vialone, visto che mia mamma è mantovana, poi siamo approdati al carnaroli De Tacchi, che per me è top. Parlando in generale, credo che il concetto di patria nasca dalla lontananza. Nel senso che per me resta qualcosa di scontato, naturale, il mio modus vivendi, visto che non mi sono mai spostata. Andando lontano invece si può sviluppare un concetto vero e proprio, probabilmente legato alle radici, ai genitori. Anche confrontarsi con uno straniero, per esempio un cuoco giapponese, porta a sviluppare una visione diversa. Però io mi sento molto patriota, se per patria intendi il luogo amato e decisivo per l’imprinting. Quello dove si desidera tornare dopo essere partiti. Può essere questo ristorante come il paese Italia, perché ci sono tanti altri luoghi come questo. [Passa un contadino e porta due cassette di pere: “Le vuoi?”. Maria Grazia e il contadino scaricano conversando in dialetto]. Vedi, anche questa è la patria: la condivisione di un territorio. Io voglio preservare le identità particolari per avere il privilegio di condividerle con gli altri attraverso il medium del cibo. Ritrovare altre persone che quando mi sposto possano darmi le stesse sensazioni.
Nel ristorante insomma si fa la patria.
Sì, perché si fa la storia di un luogo, la si condivide e si crea attorno ad essa un tessuto di relazioni con i fornitori e i clienti. Alla Capanna servo l’anguilla arrosto in umad, ma dietro questa anguilla posso raccontare il mio luogo, la grande storia e le piccole storie che si intersecano tra loro. Se vado in Sicilia voglio mangiare le specialità locali per risalire a tante cose, ma qui servo l’anguilla arrosto in umad perché è l’anguilla della mia zona, quella che pescavano i pescatori, i cui ingredienti sono il grasso dell’anguilla, perché non c’era ancora l’olio, il rosmarino e l’aglio, che erano gli aromi tipici di qua. Magari perché l’aglio era un conservante naturale in zone così umide, chissà. È un piatto che ci identifica perché è una ricetta di Goro, ed è una ricetta di mio nonno. L’anguilla viene tagliata a rocchi e cotta due volte. La prima scottata sulla griglia serve ad indurire la pelle, per raccogliere i succhi all’interno; poi si passa in forno dove il pesce cuoce nel suo stesso grasso.
In carta però ci sono anche piatti creativi, per esempio il crudo di pesce.
Sì, e lo facciamo dal 1988. Perché è difficile individuare un confine catastale fra innovazione e tradizione. Noi abbiamo scelto di mantenere i piatti di sempre, come l’anguilla e i fritti, portandoli a una comunicazione più moderna. E abbiamo affiancato loro gli antipasti, che prima degli anni ’80 non faceva nessuno, il pesce crudo come la granseola alla veneziana, perché siamo un po’ veneti nell’anima. Adesso facciamo il calamaro scottato sulla padella di ferro di derivazione catalana, e io mi chiedo: il confine dov’è? Oppure ci confrontiamo con la patria degli altri, citando il cappon magro o elaborando i pomodorini del piennolo. Perché il chilometro zero secondo me è una forzatura. La sfida vera è un’altra: si tratta di mettere al passo le materie prime di sempre con le nostre conoscenze attuali. Per esempio uso un tonno che viene pescato secondo il sistema giapponese, cioè ucciso, eviscerato e privato delle branchie, per poi essere rimesso nell’acqua a sgrondare in navigazione. In questo modo resta rosso e sodo ma è privo di sangue, che ossidando diventerebbe scuro e amaro. Ammiro il rispetto per il pesce che hanno i giapponesi. Sono maestri nella dilatazione del particolare, nel senso che colgono in ogni cosa aspetti che possono essere ulteriormente sviluppati. E assemblano i piatti con una casualità misurata, che non è affatto casuale.
Che piatti hai scelto di cucinare a Enologica?
Porterò innanzitutto l’anguilla arrosto in umad, di cui ho già parlato, attualizzandola con una quenelle di pȃté del suo fegatino. È una ricetta concepita da un collega ristoratore già sindaco di Comacchio, che è stata ripresa anche da Igles. Ma la fonte non è scritta, così l’abbiamo personalizzata in modo un po’ diverso. Io per esempio al posto del brandy uso una spruzzata di Vin Santo e di Marsala e la servo con del pan brioche tostato. Il secondo piatto sarà il germano con cipolla e vino rosso, una ricetta tradizionale della zona, nella codificazione di mio nonno, che non ho voluto assolutamente rivedere. Il selvatico è rosolato interno in tegame con abbondante cipolla, fino a caramellizzazione, innaffiato di Fortana e lasciato stufare lungamente, in modo che si intenerisca ben bene e con la cipolla formi una crema dal gusto molto intenso. L’accompagnamento, anche questa volta, è la polenta bianca. I selvatici purtroppo non possono essere quelli della nostra Valle, anche se burocraticamente forse si sta aprendo qualche spiraglio per la certificazione e l’utilizzo nella ristorazione. Speriamo!
Il vino, a questo punto.
In origine c’erano solo il bianco e il rosso sfusi. Poi abbiamo iniziato con gli abbinamenti, soprattutto sui rossi. Anche dare due bicchieri è stata una rivoluzione. Abbiamo continuato ad aggiungere etichette fino agli anni ’90, quando c’è stato il massimo furore della cantina di mio fratello. Ma Tangentopoli ha segnato il crollo dei consumi di alta fascia. Così abbiamo dovuto fare damigiane e damigiane di aceto, perché nessuno comprava più quelle cose. Ricordo che mio padre versava le bottiglie nei recipienti e aggiungeva un po’ di madre. Ci abbiamo pulito la cucina e i piatti per anni, in modo da togliere l’odore del pesce. E sono fasti che non sono più tornati.
Pierluigi, come abbini la cucina della capanna e i piatti di Enologica?
La cantina attualmente conta un centinaio di etichette, delle quali un decimo circa proviene dall’Emilia Romagna. Copriamo un po’ tutte le fasce di prezzo e apriamo volentieri anche i grandi prodotti al bicchiere. Ma la tendenza che ho osservato nei clienti è quella di usare il vino non solo per degustare, ma anche per dissetarsi, a causa dell’etilometro e non solo. Quindi i prodotti tipici della zona, come il Fortana, tornano opportuni, anche perché in quanto a piacevolezza accompagnano in modo imbattibile tanto l’anguilla che i fritti. Nel caso dell’anguilla arrosto in umad però interviene il pȃté di fegatino, che andrebbe a cozzare con un prodotto tannico, acidulo, frizzante. Meglio quindi l’Albana Progetti 1 di Leone Conti. Mentre il germano con cipolla e vino rosso, se annaffiato di Fortana, va accompagnato col medesimo vino secondo la regola aurea. Magari quello prodotto da Corte Madonnina, qui vicino, oppure da Mattarelli. Non bisogna comunque spacciare questi vini per chissà cosa, ma prenderli per quello che sono, in modo da goderne al massimo. Noi siamo anche un po’ veneti e un po’ emiliani. Ed ecco altre due mie passioni, il Lambrusco e il Soave. Invece non mi ha contagiato la voga dei vini naturali. Che come una sorta di madeleine al contrario mi ricordano i vini sfusi che servivamo quando ero piccino, con gli odori per me sgradevoli di cantina, bucce in fermentazione e lieviti.
(Alessandra Meldolesi)
[Foto: Andrea Liverani]
3. Continua
1. Alberto Bettini della Trattoria Amerigo di Savino (Bologna)
2. Carla Aradelli del Ristorante Riva di Ponte dell’Olio (Piacenza)