Quel che ci resterà di Identità Golose 2016
Tre giorni di congresso, di incontri, di show cooking a Identità Golose, il congresso enogastronomico giunto alla dodicesima edizione. Ecco il team di Scatti di Gusto cosa ha annotato.
1. Identità Gremite
Di gente, di eventi, di stand, di sapori, di presentazioni, di proposte. Così ci è successo di partire da un delicato Riso Goio Dop della Baraggia in cagnone, con porri di Cervere, toma della Valle Elvo, mele e polvere di porri bruciati (quindi, tutti prodotti del territorio-Piemonte, Riso Goio nel Vercellese, Cervere nel Biellese…) di Simone Vineis, stella Michelin del Patio di Pollone. E di approdare a una lezione della Scuola di Identità Golose, una novità di quest’anno: sulla cattedra, Claudio Sadler, che ha proposto una lasagna a tema Puglia così stratificata: sfoglia alla farina di grano arso, crema ai carciofi, stracciatella di burrata, scamorza affumicata. Decorazione ultima, una wannabe meringa vegana fatta con acqua di cottura dei ceci. E una birra regionale Moretti – pugliese per l’appunto – per buona compagnia. Le wannabe meringhe saranno un esercito che avanza, possiamo scommetterci.
2. Meringhe e caviale
Quando l’apparenza inganna. La Sala Blu era tutta dedicata al mondo e alle novità di Identità Naturali. Abbiamo assistito all’intervento di Simone Salvini, chef di natura generosa e di spiccata spiritualità, che ha dato forma alla sua maniera di trasmettere la sua di filosofia in cucina. Chiaro, pulito, essenziale, quest’anno ha messo in scena due creazioni unite da un contenuto comune, l’incontro globalizzante tra l’Europa e due continenti come l’Africa e il Sudamerica, abbondanti di materie prime. Le sue ricette sono spesso valorizzate dai legumi (che, ricordiamo, sono prodotto dell’anno per la FAO). E allora ecco le meringhe senza uova e senza addensanti, con l’utilizzo dell’acqua di cottura dei legumi, grazie alle proteine e saponine che questi contengono, e solo zucchero di canna. Per la seconda proposta invece il soggetto è la tapioca: il tubero viene utilizzato per realizzare una morbida crema aromatizzata al limone, cotta nel latte di cocco. Il risultato finale: meringhe croccanti e leggerissime e caviale di tapioca, un dessert semplice e raffinato, che valorizza i temi della natura e del gusto.
3. Valeria Mosca
La cucina estrema di Valeria Mosca a Identità Naturali. Come utilizzare ingredienti “selvatici” quali bacche, radici, foglie, getti per creare piatti e bevande, come fare la frittata con le uova di rana (circa: ma le aveva portate davvero), come funziona la fermentazione batterica delle radici – suona un po’ come far prendere loro il raffreddore. In realtà i batteri sono preziosi alleati per la fermentazione di radici selvatiche e prodotti spontanei.
4. Le prime e ultime parole famose
“In Abruzzo mi sono concesso il lusso di farmi contaminare dal mio territorio.” Niko Romito
“La cultura genera quella conoscenza che ti apre la coscienza.” Massimo Bottura
“L’Ego sovrasta la libertà, invece bisogna crescere insieme ai propri ragazzi.” Niko Romito
“Il migliore complimento che possano farti è che un piatto evoca memorie dell’infanzia.” Enrico Crippa
“Se non hai il tuo orto sei uno sfigato.” Davide Scabin
“We love beetroots because it’s great to cook them, we hate them because sometimes it’s all we have to cook with.” Matt Orlando
“Ci sono 15mila vegetali selvatici potenzialmente commestibili.” Valeria Margherita Mosca
“Se avesse fatto il cuoco, sarebbe stato sicuro un tre stelle.” Paolo Marchi a proposito di David Bowie
“Se oggi non sei etico non sei nessuno.” Davide Scabin
“La libertà è fare quello che vuoi nel rispetto del territorio, dei clienti, dei colleghi.” Enrico Crippa
“Il vero protagonista del nostro lavoro è quello che facciamo, ovvero il prodotto finale. Non il singolo personaggio.” Simone Padoan
“La libertà è riuscire a pensare il futuro.” Davide Scabin
“La creatività è l’inciampo felice. Nel momento in cui sei padrone della tecnica, hai preso coscienza dei tuoi mezzi, hai sviluppato una capacità critica e, soprattutto, conosci te stesso, allora in quel momento, lungo la strada della creatività, inciampando su una banana troppo matura, assaggiando un pesto di briciole di pane o una cartelletta di limone caduta, in quel momento vedi il mondo con occhi diversi, quelli di un bambino che da sotto il tavolo ruba un tortellino crudo dal tagliere e cattura un lampo nell’oscurità. In Osteria guardiamo ancora il mondo da sotto il tavolo, come bambini curiosi.” Massimo Bottura
5. Gianluca Fusto e le praline
Ogni anno, Prime Uve offre a chef, pizzaioli, pasticceri la possibilità di utilizzare i loro prodotti in una preparazione gastronomica. Quest’anno è toccato a Gianluca Fusto, che si è inventato Prime Lune, tre sfere di cioccolato ottenute utilizzando Prime Uve Bianche, Oro e Nere. Degustazione guidata e spiegata da Fusto e da Andrea Maschio: parole chiare ed esaurienti, ma le praline parlavano benissimo da sole. Fusto anche qui ha seguito il suo percorso di sottrazione: meno ingredienti possibile (la regola del tre: tre ingredienti, tre strutture), esaltare le singole materie prime. Qui l’ingrediente alcolico mantiene la sua personalità, il guscio di cioccolato serve a contenere, con la sua parte croccante e quella dolce, i tre diversi ingredienti: il primo, rosa, Prima Luna Ripiena, un gel 50% distillato Prime Uve Bianche (Prosecco e Riesling, ovvero Glera), 50% acqua, caratterizzato dalla freschezza, amplificata dalla scelta del lampone per il guscio esterno; il secondo, con Prime Uve Oro (gli stessi vitigni, appassiti), è caratterizzato da note piccanti, e da qui l’abbinamento con la cannella; e Prime Uve Nere (Cabernet e Refosco), dalle note erbacee, autunnali, bosco e sottobosco, che hanno portato a un gel più intenso, mentre la polvere richiama con il cacao il porcino fresco.
6. Cucinando la stessa minestra
Da un lato, l’impressione è quella di un po’ di stanchezza e ripetitività. Sempre gli stessi chef, che ti cucinano o fanno cucinare in diretta uno o più piatti, guarda che bravo che usa il frullatore a immersione con la mano sinistra facendo roteare un hula hoop con la destra, che monta gli albumi senza mani, e ora assaggia, senti quanto è buono, avanti un altro. Dall’altro, ci sono sempre spunti interventi commenti interessanti. Anche se siamo sempre lì a metà fra il congresso professionale e lo show dello chef per il pubblico più o meno esperto (già: quanti sono gli addetti ai lavori, quanti i paganti…?), fra l’iperspecializzazione e la celebrazione. Eppure, nel gran melting pot onnicomprensivo (identità naturali di pasta di pizza di gelato di caffè di champagne, arriveremo a forchette e toilette?) impiattato da Paolo Marchi, tutto ha un senso e tutto ha un buon sapore. L’auditorium ha ospitato e spettacolarizzato contributi importanti, celebrato l’eccellenza, sottolineato la grandezza. La libertà di creare, di conoscere, e – acquisizione di questi ultimi anni – di comunicare, di condividere.
7. 10 piatti per Niko Romito
Sale sul palco annunciato da Paolo Marchi, che lo osanna celebrando le sue partecipazioni a Identità Golose, prima come giovane sperimentatore agli albori della carriera e poi, anno dopo anno, e stella dopo stella – l’ultima nel 2013 al Casadonna Reale di Castel di Sangro – fino a oggi. Niko Romito è uno dei pochi cuochi che non esegue una preparazione in diretta ma elenca e descrive i dieci piatti della sua carriera che maggiormente lo rappresentano. Le immagini passano in rapida successione sui grandi schermi e per ognuna di esse Romito ha una parola particolare, una descrizione minuziosa dei dettagli, quasi paterna. Si parte con l’“assoluto di cipolle”, creazione del 2009 tutta giocata sulla tecnica dell’estrazione; si passa al “carciofo arrosto”, tecnicamente basato sulla tecnica della stratificazione; avanti con la “misticanza alcolica con mandorle”, il “cocomero e pomodoro”, e poi i “tortelli affumicati di capocollo” e gli “spaghetti al pomodoro”, forse i piatto più rappresentativo della cucina italiana nel mondo, che Romito esalta utilizzando quattro tipi diversi di pomodoro; si passa alla “linguina fredda, ostrica e patate”, un primo piatto che Romito fa diventare antipasto servendo la pasta fredda; si procede con “agnello, aglio e pompelmo rosa” e “animelle, panna, limone e sale”, che gli valse il premio piatto dell’anno nel 2014; “piccione e pistacchio” e poi “essenza”, dolce del 2009 in cui Romito cerca un incontro fra dolce e salato (c’è il gelato alla genziana). Si conclude “semplicemente” con il pane, un alimento di base su cui Romito e la sua squadra hanno lavorato tanto fino ad arrivare ad un pane fatto con due dei tipici grani antichi dell’Abruzzo: la salina e la saragolla.Terminato il momento delle immagini, che da sole raccontano di ricerca e sperimentazione, Romito mostra alcuni filmati realizzati nel laboratorio di ricerca al Reale-Casadonna, in cui ciascuna ricetta è mostrata passo dopo passo dall’ingrediente alla presentazione finale: un’idea nata dalla voglia di condivisione di un grande lavoro personale prima e di squadra dopo che è poi il marchio di fabbrica delle creazioni gastronomiche di Niko Romito.
8. Ma tu vulive ’a stella
A quanto pare, una stella Michelin era già stata assegnata, negli anni ’60, a una pizzeria di Pontecagnano. Se ne era quasi persa traccia, anche nella stessa pizzeria, come di una specie di lontano prozio un po’ originale, di cui si favoleggiava fosse stato mangiato dai cannibali… Lo ha ricordato sul palcoscenico dell’Auditorium Paolo Marchi, proiettando la relativa pagina della Guida.
Questo non è un grandioso inizio per un convegno, o incontro, o conferenza, che si intitola “La stella: sogno impossibile per la pizza?” – è un po’ come dire no, non è impossibile, è già successo, se non ce l’avete vuol dire che non siete abbastanza bravi.
Naturalmente, non è così semplice. Oltre a non essere vero che non ci sono pizzaioli degni di stelle: probabilmente, si tratta solo di stabilire dei criteri. I criteri sono tutto, nella vita: così, il criterio di questo incontro è stato “invitiamo un po’ di pizzaioli famosi, metà tradizional-napoletani, metà gourmet, in modo da coprire più o meno tutta la gamma (tranne la pizza fast-food, Spizzico- o Spontini-style, per intenderci), e vediamo se gli piacerebbe, avere una stella.” Ne consegue che la risposta comprendeva una serie di sfumature di “sì” (sì se me la danno, sì se umilmente ne sono all’altezza, sì se pensano che me la meriti”).
Se Roberto Restelli, che della Rossa italiana è stato direttore, sembra ipotizzare che sia necessario prima un (veramente necessario? possibile/impossibile?) adeguamento “estetico” e del servizio (carta dei vini, delle birre, immaginiamo anche camerieri in giacca e cravatta), già Enzo Coccia avanza qualche dubbio: l’investimento per la stella potrebbe andare a scapito del contatto con il cliente. E forse – sembra ipotizzare Renato Bosco – la figura del pizzaiolo, “passionale per antonomasia”, mal si adatterebbe a una griglia di giudizio ancora tutta da verificare e costruire.
Ancora Coccia: “Emozioni, è tutto quello che abbiamo e che siamo in grado di dare perché la qualità è dentro di noi, nella ricerca delle migliori materie prime.” E l’importanza della ricerca, dell’utilizzo delle materie prime, già in atto, vengono evidenziate anche da Gino Sorbillo (che sottolinea peraltro come comunque tutto parta da un “sentimento antico” ereditato dalla tradizione) e da Franco Pepe, che si avvale della collaborazione di un agronomo per la selezione delle materie prime. Simone Padoan parla di “qualità del lavoro che deve iniziare dalla qualità del pensiero”, mentre Massimo Giovannini, disinteressato alla stella in sé, sta lavorando sulla professionalità del pizzaiolo.
Tutti d’accordo, quindi, più sulla professionalità, sulla qualità, sull’arte della pizza, che sul desiderio di stelle. Che potrebbero essere auspicabili, senza snaturare però quello che la pizza e la pizzeria sono diventate nel tempo. Attendiamo qualche intervento più fattivo, operativo (facciamo una petizione, smettiamo di comprare pneumatici Michelin se non ci danno le stelle, facciamo noi una guida stellata di pizzerie) – o anche critico, qualcuno che dicesse no, la stella sulla pizza non ce la voglio, perché…
9. La griffe di Paolo Griffa sui cioccolatini
Identità è anche una vetrina di produttori e prodotti e chef che lavorano con i prodotti per i produttori. Così il giovane Paolo Griffa, ex sous-chef al Piccolo Lago di Marco Sacco a Verbania, distribuiva allo stand Pavoni (attrezzature per pasticceria e cucina) delle “kapsule” ripiene di una ganache al caffè in due versioni, con nocciole e con arancia amara. La forma è appunto quella delle capsule di caffè, e sono chiuse con un dischetto di cioccolato del Madagascar con il logo di Paolo. Buone – ma forse più buona la pralina colorata con sanguinaccio (lavorato come una ganache), lamponi e arachidi salate.
10. Scabin-Cappelli-Felicetti: un trio che ci piace
Riccardo Felicetti ci piace: è un bravo comunicatore, produttore, manager, e non è un’osservazione banale. Anche la sua nuova linea di pasta, Il Cappelli, ci piace: bisogna dire che la abbiamo assaggiata condita con i sughi di Scabin, che immaginiamo rendano delizioso anche l’elenco del telefono.
Il Cappelli è fatta con la varietà di grano dedicata al Senatore Cappelli, agronomo di vaglia, che “a crudo ricorda i sacchi di juta e la radice di liquirizia. In cottura richiama il latte appena munto, buccia di castagna e patata lessa. Nell’assaggio, morbido e nervoso, si ritrova il gusto dolce della mollica di pane e un finale curiosamente salino”. E ci piace Davide Scabin: com’è, come parla, come cucina, come pensa. Il suo intervento-fiume sul palcoscenico dell’Auditorium è stato come sempre denso, sorprendente, interessante e divertente (comprendendo qui anche la parentesi involontariamente comica dell’Antropocene divenuto antropocena). E sui rigatoni con crema di broccoli, pomodorini, lenticchie e lampascioni fritti, puzzone di Moena e patate allo zafferano, e sugli spaghetti cacio e pepe, verza, cicoriella in concia, mele, speck, mandorle a lamelle, cosa vuoi dire? Che sono come lui: un’esplosione di sapori, sensazioni, cultura, idee.
Dal genio agronomico di uno dei più grandi e misconosciuti studiosi italiani e l, questa varietá di grano cocciuta e generosa è capace di condensare nei suoi chicchi il sole delle Murge e il gusto vero e sincero del ‘900. Interpretato dai nostri pastai in connubio con l’acqua pura del Latemar, restituisce calore e colore con un temperamento schietto e vigoroso, profondamente italiano. A crudo ricorda i sacchi di juta e la radice di liquirizia. In cottura richiama il latte appena munto, buccia di castagna e patata lessa. Nell’assaggio, morbido e nervoso, si ritrova il gusto dolce della mollica di pane e un finale curiosamente salino.
[Emanuele Bonati, Daniela Ferrando, Manuela Di, Isa Scuderi. Immagini: Giulia Ubaldi, Identità Golose/Brambilla Serrani]