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16 Giugno 2017 Aggiornato il 17 Giugno 2017 alle ore 10:15

Instagram dichiara guerra alle marchette sul web. In pericolo influencer e fuffblogger

Il sempre molto attento alle cose del web 2.0, Pier Luca Santoro, con un breve post su Facebook spiega che la pubblicità occulta è sotto scacco. In
Instagram dichiara guerra alle marchette sul web. In pericolo influencer e fuffblogger

Il sempre molto attento alle cose del web 2.0, Pier Luca Santoro, con un breve post su Facebook spiega che la pubblicità occulta è sotto scacco.

In Italia, il “solito” Report ha scoperchiato la pentola un po’ puzzolente degli influencer che ritagliano spezzoni di vita che sembrano casuali per pubblicizzare prodotti, ristoranti, eventi a suon di like, repost e selfie.

L’inchiesta di Bernardo Iovene ha sollevato qualche dubbio sullo splendido mondo dorato del cibo, ma la reazione degli addetti ai lavori occulti è stata del tipo tutti sotto coperta ad aspettare che passi la nottata.

Qualche timido bagliore di genuinità si è affacciato. Le operazioni di facciata, però, si contano a chili di vernice. Una gran quantità di vernice che sarebbe sufficienti per ridipingere un grattacielo sulla Quinta Strada.

Le truppe dell’insabbiamento hanno subito lavorato nel nome della trasparenza per decretare l’impossibilità di tenere al tempo stesso il ruolo di addetto stampa, rectius (con termine che vorrebbe essere forse più infangante) comunicatore e quello di giornalista-recensore-critico per blog e testate giornalistiche sul presupposto che il conflitto di interessi porterebbe lo scrivano a dare preferenza ai suoi clienti sugli altri nelle onnipresenti classifiche. Giusto, ma dimenticando in primis che il ruolo dell’addetto stampa sarebbe proprio ritagliato a norma di codice sulla figura del giornalista e che in secundis l’inciucio marchettaro di cui l’italica stampa ha spesso fatto sfoggio prevede le affettuosità giornalistiche che si commutano nel classico do-ut-des informativo e nella possibilità che autori e collaboratori di questo o quel sito facciano il piacere di andare a vedere che accade nel ristorante di turno.

Utilità del discernimento categoriale prossima allo zero.

Peggio riesce a fare solo la declarata virtù che si accompagna all’anonimato e al pagamento del conto in ristoranti e soprattutto pizzerie per l’esiguità del conto stesso. Non è una dichiarazione di intenti, utile per sciacquare l’anima, a salvaguardare il criterio dell’obiettività. In pratica o sei Valerio M. Visintin che va mascherato in tutte le occasioni in cui giornalisti, giornalai, blogger e affini si mettono sotto i riflettori presentando, ad esempio, l’ennemillesimo libro già pre-acquistato in fase di stampa da sponsor che ne faranno delizioso cadeau natalizio, o sei un ispettore della Michelin che se non paga il conto manda in frantumi il suo contratto. Perché l’anonimato e il pagamento del conto siano ingredienti efficaci occorre che vengano messi a sistema: cioè siano applicati sempre. Ora indicatemi un addetto ai lavori che non abbia partecipato a un qualche eventino, moderato un appassionante dibattito sull’uso del minipimer nelle cucine stellate, uno chef che non sia finito in un cartellone messo su da un’organizzazione non governativa e mi ricrederò all’istante.

Probabilmente è sbagliato il presupposto di partenza: se vogliamo normare un’attività che avviene sui social dobbiamo stare nel quadro di quella piattaforma. Che è appunto social e quindi prevede un’attività di relazione o di pubbliche relazioni come si sarebbe detto una volta.

PR, dunque, che non sono Pranzi e Ricevimenti, formula molto gettonata al tempo della carta stampata 0.0 per indicare quel coacervo di affettuosità a zero contenuti che esplodevano in comunicati stampa fatti di puntini esclamativi. Gli stessi che al tempo del web 2.0 sono stati sostituiti dai puntini sospensivi nel disperato tentativo di comunicare l’assoluta fighezza del nulla cosmico sottovuoto.

E quindi saremo da capo a 12. O da capo a 2.0.

D’altronde sulla sconnessa strada verso la trasparenza informativa possiamo registrare scivoloni non solo da parte dei blogger-giornalisti-recensori-critici.

Prendiamo ad esempio la folgorante mail circolare con cui il presidente dell’associazione quasi governativa Ambasciatori del Gusto sceglie la linea difensiva contro gli attacchi ingiustificati della puntata di Report dedicata alla ristorazione, alle sponsorizzazioni occulte e allo sfruttamento dei più giovani.

Ecco il testo.

La strategia anche in questo caso è del tipo tutti sotto coperta tanto deve passare la nottata che per un movimento auto definitosi ambasciatore pronto a dare messaggi e risposte appare un po’ in contraddizione.

Forse il punto più interessante è proprio il suggerimento di Paolo (penso Marchi, Vice Presidente di Ambasciatori del Gusto) che testimonia l’unitarietà di due categorie, giornalisti (e in questo caso anche direttore di guida e organizzatore del più importante evento enogastronomico italiano) e chef, che il criterio della trasparenza vorrebbe anonimi l’uno rispetto all’altra.

Se quindi siamo ai vasi comunicanti, è meglio conoscere i legami e gli interessi che animano articoli, post, foto notizie, like, repost e selfie. Altrimenti si corre all’opposto il rischio che venga applicata dietrologia anche a una semplice e sana amicizia.

Instagram, come appunto fa notare Pie Luca Santoro, ha messo giù il primo manuale che vale molto di più di 1.000 convegni perché è di immediata applicazione. Se stai su quella (auto)strada della trasparenza paghi quel pedaggio.

Voi direte che gli intenti forse sono altri. Tipo far pagare quei contenuti per quel che sono, cioè pubblicità, abbassando il reach, cioè l’indice di diffusione della “notizia”, e quindi spingendo a sponsorizzare il contenuto come già è possibile fare e come accade ampiamente su Facebook con gli strateghi dello SMO e i Social Manager che chiedono compenso + investimento pubblicitario altrimenti non si va da nessuna parte.

“Paid partnership with” è la formula utilizzata per richiamare l’attenzione dei lettori, rectius, della comunità su un contenuto generato da un pagamento. Perché spiegano da Instagram, la chiarezza è quello che serve alla comunità.

Giuliano Balestrieri ne fa un’analisi su Business Insider che vi raccomando caldamente di leggere.

Non resisto, però, al riportare il passaggio conclusivo che ancora una volta ci dice come la strada sia sconnessa e pure in salita.

D’altra parte senza alcun intervento normativo le authority italiane hanno le mani legati anche perché la digital chart di Iap non fornisce indicazioni rilevanti, ma serve piuttosto a fare una ricognizione della situazione: “Il fine promozionale del commento o dell’opinione espressa da celebrity/influencer/blogger, qualora non sia già chiaramente riconoscibile dal contesto, deve essere reso noto all’utente con mezzi idonei” che tuttavia sono scelti liberamente dall’inserzionista. Per esempio si ritiene che per rendere riconoscibile la “la natura promozionale dei contenuti postati sui social media” sia sufficiente pubblicare il nome del brand; quello della campagna pubblicitaria e magari il link al sito internet del marchio. Esattamente quello che vogliono gli inserzionisti per aumentare la loro visibilità. E senza dichiarare pubblicamente che si tratta di pubblicità.

Va anche sottolineato che l’utente giovane e smaliziato di Instagram sa benissimo come funziona questo mondo e anzi ne vorrebbe entrare a far parte sul modello di Chiara Ferragni che ha candidamente ammesso di essere un media pubblicitario. La fashion influencer ha di fatto aperto la questione sul come “difendersi” dal product placement e la pubblicità occulta con Michele Boroni che su Wired avanza non poche perplessità su questa possibilità di difesa avanzata dallo IAP, l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria, decisa a ricorrere a uno schema novecentesco.

Quello di Instagram comunque sembra solo il primo passo. I feedback, le verifiche, rispetto a questa decisione comporranno il puzzle che potrebbe arrivare a un tag obbligatorio. Ci sarà un #ad = advertising che lo segnalerà?

È il ritorno della fascetta “pubbliredazionale”, del carattere tipografico diverso dal resto del giornale per far capire che qualcuno ha pagato e vuole un ottimo servizio in grado di parlare la stessa lingua dei lettori che al tempo del web 2.0 si chiama anche native advertising?

Chissà se i feedback saranno tutti positivi. Scommettiamo che si griderà alla prepotenza della multinazionale e occorrerà difendere un qualche articolo della Costituzione?

 

Vincenzo Pagano
Fulminato sulla strada dei ristoranti, delle pizze, dei gelati, degli hamburger, apre Scatti di Gusto e da allora non ha mai smesso di curiosare tra cucine, forni e tavole.
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