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6 Giugno 2022 Aggiornato il 21 Giugno 2022 alle ore 09:11

Mancanza di personale: cronaca di una settimana di lavoro da cameriera

La mancanza di personale in sala e in cucina affligge le attività di ristorazione. E io sono diventata cameriera per raccontarvi cosa succede
Mancanza di personale: cronaca di una settimana di lavoro da cameriera

La mancanza di personale nei ristoranti, bar e alberghi la si percepisce anche semplicemente camminando per le strade. 

A Milano, dove io vivo, ogni due attività commerciali ce n’è una con affisso in vetrina il cartello “cercasi personale”. 

Per me è sempre stato un lavoro piacevole da fare, sin dal liceo, e lo alternavo agli studi. E successivamente alla mia professione principale. 

A proposito, la mia professione principale è scrivere. Lo faccio per Scatti di Gusto perché il settore della ristorazione l’ho sempre amato. 

Da cliente, da dipendente e, da qualche anno, lo racconto. 

Ed ecco perché siete qui. 

Perché qui, oggi, “una giornalista” vi racconta la sua ultima esperienza da cameriera.

Era da un po’ che pensavo di proporre un servizio giornalistico su questo mondo. Ma visto dagli occhi del personale per capire come è trattata la sala e non per indagare il motivo della mancanza di personale.

E il caso ha voluto che la mia ultima esperienza cadesse proprio in questo momento. Un momento di innegabile “follia” del settore.

Che vi racconto dalla sala, come uno dei qualsiasi camerieri. Diventati ormai oggetto del desiderio in questa stagione all’insegna della mancanza del personale.

Mancanza di personale. Giorno zero

caffè e mancanza di personale

Finisco un appuntamento di lavoro e decido di fare una passeggiata in Duomo, a Milano.

Voglio un caffè di quelli di qualità, meglio se speciale. Entro in un posto dove di caffè ne sanno un bel po’.

Fuori c’è un cartello “cercasi personale appassionato”.

Il caffè lo amo e ho iniziato a studiarlo da consumatore, leggendo libri, partecipando a degustazioni, corsi, fiere ed eventi.

Mi dico “che fantastica occasione per me entrare in un’azienda così, dalla porta di servizio (per l’appunto)”.

Mi siedo da cliente per osservare la situazione e valutare come proporre la mia candidatura.

Ordino a una cameriera e per rimanere un po’ a lavorare decido di non ordinare solo un caffè.

La cucina forse è aperta, forse no. Deve chiedere.

Da cliente a cameriera è un attimo

Ok, mi possono preparare un panino (gourmet ovviamente, dato il taglio del locale). Lo ordino e ordino da bere.

Nel frattempo, arriva un’altra persona a chiedermi se avessi ordinato. 

“Che strano”, penso, “c’è un cartello che segnala mancanza di personale, ma qui allora abbonda”. 

Dopo un po’ arriva lo chef a servirmi. “Forse no”, penso, “quando mai lo chef esce dalla cucina per servire ai tavoli?”.

Vabbè, saranno in chiusura e sono più sciolti, evidentemente non c’è la tensione del servizio perfetto.

Alla cassa chiedo come ci si candida.

C’è la store manager. Ne parlo direttamente con lei. Mando il curriculum. Mi chiama pochi giorni dopo l’HR del Gruppo, fissiamo un colloquio in sede. Spiego che ho esperienza di sala, ma non è la mia professione principale, ma ho intrapreso gli studi da sommelier del vino e da poco del caffè. E che per me sarebbe anche un’esperienza formativa importante.

“C’è la possibilità di fare un part-time verticale nei weekend dato che faccio un altro lavoro?”.

Si può fare, “ma è un problema per te se qualche volta ci fosse uno straordinario?” 

Contratto part-time, una soluzione alla mancanza di personale

soldi e mancanza di personale

No, in fondo in tutti i lavori qualche volta c’è da fare dello straordinario. 

L’offerta è per un part-time al 60 per cento, verticale, per 24 ore settimanali, 14 mensilità a tempo determinato. Mi dicono lo stipendio. Circa 940 € al mese, quindi più o meno 9,70 € a ora. Accetto.

“Allora inizi giovedì”.

In realtà avevamo parlato del weekend. Glielo ricordo e iniziamo dal venerdì, ma ora sono abbastanza sicura che qui c’è mancanza di personale.

Mi vengono spediti i turni. Ci sono già straordinari della prima settimana, ma di poco conto. Mi stupisco, invece, dei turni della settimana successiva: tutti i giorni eccetto due, e uno di questi è il sabato, e in più la domenica è mezza giornata. “Che strano”, penso, “ma non si era detto che avrei lavorato tutto il weekend con orari verticali per avere più giorni feriali liberi?”. Ok, è l’inizio, sarà per la formazione e annullo tutti i miei altri impegni lavorativi infrasettimanali.

Il giorno prima di iniziare mi vengono spediti alcuni menu per studiarli. Saranno le mie letture della sera.

Giorno uno

Arrivo, il mio turno inizia alle 12.30, in orario di punta. Col botto, insomma. Appena possibile il responsabile di sala mi mostra gli spogliatoi e mi consegna la divisa. Non so bene dove mettere le mie cose, le lascio sulla panca. Ma a fine giornata mi viene rimproverata questa iniziativa. Eppure non mi hanno dato un armadietto. Comunque mi cambio e sono pronta per il servizio. Ci sono 3 zone interne e 3 zone esterne, più bancone.

Il responsabile mi spiega la numerazione tavoli, suddivisi in decine per zone. Per il momento inizio con lo sbarazzare e pulire i tavoli. Nei momenti più tranquilli ripassiamo i menu. Ma le ricette di caffetteria e pasticceria, aperitivi e drink, e gastronomia non sono ancora stampati nella mia mente. L’interrogazione è rimandata al giorno successivo.

Mi spiegano alcuni semplici compiti e alcune semplici regole. Mi lascia perplessa che in alcuni casi le regole sono diverse a seconda di chi le impartisce. Faccio di necessità virtù e mi organizzo. Pongo meno domande possibile, soprattutto nei momenti di maggiore caos, non tanto per mancanza di personale, e “copio” quello che fanno i colleghi.

Il servizio è velocissimo, non abbiamo zone assegnate, o almeno non mi è stato detto. Ma al momento sono una “runner” e cammino da una zona all’altra a supporto delle richieste dei colleghi. Arriva l’ora della pausa pranzo, prendo il mio telefono per rispondere ad alcuni messaggi e torno in servizio dimenticandolo in tasca. E, a proposito di runner, a fine giornata il mio contapassi segnerà circa 14 chilometri.

Nel frattempo, mi dicono di togliere orecchini (delle minuscole perline) e lo smalto. E mi assegnano nuovi compiti a casa: “Stasera porta a casa i menu completi e imparali a memoria, tanto ti sai autogestire, prima li impari prima prenderai le comande”. Così sarà fatto.

Mancanza di personale: Giorno due

Strada facendo ripasso i menu e mi appunto i numeri dei tavoli su un foglietto. Ho già l’ansia da prestazione per la mia memoria labile. Ma confido sul fatto che il giorno prima non ho avuto grossi problemi, nonostante tutti quei tavoli e le poche informazioni che avevo.

E, invece, ho mal riposto la fiducia in me. Inizio a lavorare e cerco di fare qualcosa in più del giorno prima. Mi lancio nella prova del “servizio ai tavoli” ma non so bene come vengono chiamate le comande tra bar e cucina. Sbircio quello che fanno i colleghi e lo faccio anche io. Ma la confusione è tanta, mi sento un pesce fuor d’acqua. E non sarà la constatazione che la mancanza di personale mette in difficoltà a rincuorarmi.

Tra un’interrogazione a sorpresa sul menu e un richiamo penso di essere finita nel posto sbagliato. Decido di mantenere un profilo basso e continuo con lo “sbarazzo” dei tavoli e le pulizie. Ma ci sono troppi tavoli da servire e per rendermi utile torno a prendere i piatti dalla cucina.

Come lavarsi le mani

Qui succede che vengano notate le mie mani non perfettamente “in ordine”. Mi accompagnano al lavandino del bancone, fronte clienti, dove finalmente mi viene insegnato come si lavano le mani. Mi sento una giovane allieva di Barbara D’Urso. Imparato come si lavano le mani, davanti a colleghi e clienti, posso continuare il servizio. Un po’ perplessa un po’ imbarazzata. Decisamente stordita.

Non vedo l’ora che arrivi sera. Mi sembra di sbagliare tutto nonostante cerchi di seguire gli input che mi arrivano. Da più parti. Eppure a me il servizio è sempre piaciuto. Pur in mancanza di personale penso che dovrei essere in affiancamento? Arriva la chiusura. Lavo a terra, mi cambio. “Impara i menù, ché i tuoi colleghi si arrabbiano” (detto in un altro modo in realtà). Sorrido e torno a casa a ripassare i menu. Che vergogna non sapere rispondere alla ricetta del mocaccino e non so lavare le mani.

Mancanza di personale: Giorno tre

Mi sveglio col pensiero che i miei colleghi e i responsabili pensano che non lavori come gli altri perché non so a memoria i menu e non posso prendere le comande.

A parte questo, del giorno tre non ricordo aneddoti più imbarazzanti del giorno precedente. Ho imparato che si entra in cucina con il vassoio “dello sbarazzo pieno” e se ne esce con quello dei bicchieri puliti, tenendo la schiena dritta e sorridendo. Occorre anche mantenere la calma, insieme a una serie di altre cose. Stavolta ci riesco.

E, infatti, la giornata scorre più serena. Sarà che c’è meno confusione, o che ho scritto le ricette su un foglietto che custodisco gelosamente in tasca. O che si impara sbagliando. Ma arrivo a chiusura senza particolari colpi di scena. Quelli arriveranno il giorno quattro. Solo una cosa ho sottovalutato del giorno tre: firmare il contratto senza ricevere una copia a fine serata. Ma sono stanca e desidero solo andare a casa. Mi fido. Ma vi avverto che pensare con la propria disponibilità ad ovviare la mancanza di personale in un locale non vi esime dalla lettura.

Giorno quattro

Quanti chilometri si macinano in sala non lo avevo mai considerato. A fine giornata non si sentono più i piedi e la schiena duole.

“L’ho sempre fatto, ma non avrò più l’età”.

Inizia la settimana piena. Anche se è lunedì, in pieno centro e in bella stagione si marcia come nel weekend. La mancanza di personale, insomma, si fa sentire.

Il colpo di scena arriva a metà turno. Col vassoio pieno mentre torno in cucina mi ferma la store manager. “Per te non ci sono problemi se ti aggiungo uno straordinario per la prossima settimana, vero?”. “Che giorno?” e mi mostra il pc, che non vedo dato che sono in piedi col vassoio sulla porta della cucina.

“La domenica”. “Bene, la domenica va benissimo!” (meno male, durante la settimana lavoro altrove). Arrivano i turni sulla chat di gruppo: ho tutta la settimana piena tranne due giorni. “Non è più strano”, penso, “qui se ne infischiano”.

Gli orari e le ragioni della mancanza di personale

Continuo a lavorare, ma i pensieri montano sulle ragioni della mancanza di personale nei locali. Tra un’interrogazione e un’altra, mi chiedo che ci faccio lì tutta la settimana se ho un part-time di 24 ore che credevo si esaurisse in tre giorni interi.

Ho dieci giorni di prova, e ho assicurato (verbalmente, come si fa tra “galantuomini”) due settimane di preavviso per andar via. Non mi piace non mantenere la parola, ma visto l’andazzo è bene correre subito ai ripari.

In pausa vado a dare il mio preavviso, tra le rimostranze della manager e lo stupore dei colleghi. Per rispetto del lavoro altrui farò le due settimane di turni che sono già stati stabiliti, ma al termine andrò via. Volevo questo lavoro, ma a queste condizioni sono disposta a rinunciarvi. D’altronde, oggi, capisco perché sono disposti a rinunciarvi perfino i professionisti del settore. La sera mi danno copia del contratto: è uno stagionale, fino a metà agosto. “Che strano”, penso, “e il mio annuale a 14 mensilità?”.

Giorno cinque

Delusa, vado negli spogliatoi a mettere la mia divisa. Che peccato avevo anche il nome sulla targhetta. “Se avessi 20 anni di meno, e non avessi una carriera altrove, resterei”, ma bando ai sentimentalismi, andiamo a lavorare.

Ho i calzini bordeaux con un fiocchetto in tinta che sbucano tra pantalone e scarpe nere, mi mandano a cambiarli. “Che strano”, penso, “stona di più la mancanza di personale che costringe chef e sous chef a servire o l’accoglienza dei miei calzini?”.

Day off

Mi chiamano dalle risorse umane, mi chiedono le motivazioni del mio preavviso. Spiego che le motivazioni principali sono due. Una è per i turni di lavoro che non rispettano gli accordi presi. Risposta: “E tu che fai comunicazione non sei in grado di discuterne prima?”.

La seconda è per il contratto che non è quello che avevamo concordato. Risposta: “Tu che sei giornalista non lo sai che si leggono i contratti prima di firmali?”. Eppure dieci giorni di prova valgono sia per azienda che per dipendenti. Inoltre, aver garantito due settimane di preavviso mi faceva sentire una “persona per bene” al di là del contratto e del mio principale ruolo professionale. Ma a quanto pare mantenere gli impegni (anche non scritti) non basta per dimostrare rispetto per il lavoro altrui, a loro dire. E allora torno a rispettare il mio.

Lascio a voi le riflessioni sul questo mondo e su alcuni dei motivi che determinano una mancanza di personale in ristoranti, pizzerie e locali.

Argomenti:
lavoro
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Scatti di Gusto di Vincenzo Pagano
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