Meglio anonimi o scrocconi? Al ristorante non serve la bagarre sul conto
Uno spettro si aggira per l’Europa, no non è il comunismo come chiosava Carlo Marx, ma l’eterna querelle anonimato si o anonimato no. In stile De Funes (ricordate lo strepitoso ala e la coscia), sembra il solo argomento in ballo nella critica gastronomica italiana.
Dopo l’articolo su Sette della Baresani, le riprese su Dissapore e Papero Giallo, la controffensiva del comandante Marcos della critica italiana su Puntarella Rossa (e Fatto Quotidiano) e la risposta piccata del decano Bonilli. La questione si è scaldata e sviluppata coinvolgendo i molti del nostro piccolo mondo.
Si sa i vecchi vizi sono duri a perdersi, per cui ci si è tosto schierati in pro e contro, come se l’anonimato fosse La Questione in ballo nel sofferente mondo della critica gastronomica. Sciocco io che penso che il problema sia quello di non riuscire a raccontare adeguatamente lo straordinario momento della cucina italiana, che ho subito con dolore il trattamento ingeneroso e la solitudine fisica dei nostri chef nella serata londinese della 50best, non ho invece capito che l’anonimato è il centro di tutto.
Boh, mi sembra una pazzia per una serie di motivi. Si confonde la critica con il lavoro delle guide e del recensore, di cui quello è solo una parte. Le guide italiane (almeno le principali) già si basano sull’anonimato, sul tentativo di raccontare e simulare quanto più possibile una esperienza tipo, fatta da un normale cliente. Non a caso si usano nome de plume per prenotare e si pagano i compensi a presentazione di ricevuta, è una pratica normale che in tanti anni di lavoro nelle guide ho sempre riscontrato. La sanno talmente anche i cuochi che a richiesta di conto, difficilmente si azzardano a non portartelo.
Tra l’altro ad una risposta data al mio intervento su Puntarella, lo stesso Visintin dichiara “Caro Bocchetti, se i compiti fossero separati e distinti come li descrivi, non avrei nulla da ribattere. Purtroppo, allo stato dell’arte i ruoli sono assai più confusi ed equivoci”, quindi la vera questione è un’altra.
Quello che è sub iudicio, dunque, non è il sistema generale, ma l’integrità di alcuni. Un sistema “gelatinoso” di connivenze e comparaggi tra critici e cuochi, questo sembra avanzare Visintin. In ultima istanza, dico io, la serietà degli estensori. Se le cose stanno così è differente ed è grave e sbagliato per colpa di alcuni, mettere sotto giudizio tutta una categoria.
La colpa della critica italiana, non è pagare i conti o meno, il problema è semmai non riuscire a raccontare internazionalmente ed in maniera adeguata questo mondo. Se nella paperopoli televisiva si parla di cucina con canzoncine e cappellini sgargianti, la colpa è anche nostra. Se tutto un comparto importantissimo, per l’economia italiana, in questi giorni tristi viene raccontato come i tre porcellini, bisogna porsi delle domante sul ruolo degli enogastronomi e della critica, altro che passamontagna e mascheramenti.
Si risolve semplicemente con la credibilità che ognuno si guadagna con il suo operato. Bisogna smetterla di credere al popolo bue che si beve ogni cosa. È il pubblico, i lettori come diceva Montanelli, che determinano la credibilità di un critico. Quando leggo la recensione di Ferzetti da Venezia, so già se mi posso fidare o meno e cosa aspettarmi, se no semplicemente la salto e vado avanti. E se la salterò per troppe volte cosa credete che accadrà del povero critico?
La questione vera è questa: raccontare adeguatamente il patrimonio di saperi e sapori che l’Italia custodisce, il resto sono ordinarie storie di malaffare, schizzi di fango che il tempo galantuomo metterà nella giusta luce.