Il mio pranzo di Ferragosto tra mare e campagna sul filo dei ricordi
Mangiare in agosto, in famiglia, è sempre una cosa un po’ strana, in equilibrio tra la fame, la voglia di fresco e la non-voglia di stare ai fornelli, la noia del rito primo-secondo-frutta, e anche il desiderio di trovare un locale nuovo, provare cibi insoliti – ovvero cose che non si mangiano tutti i giorni a Milano negli altri mesi dell’anno.
Il tutto, poi, costruisce una propria storia gastronomica, fatta di gusti, di riti, di condivisione, ricordi, affetti.
Le mie vacanze da bimbo e da ragazzo, al di là di qualche viaggio, sono sempre state divise fra la campagna, quando c’erano ancora i nonni – nel Parmense, tra Fidenza e Busseto, in un paesino raccolto attorno a due strade, Castione dei Marchesi – e il mare.
La campagna era una cosa bellissima, eravamo noi, io e i miei fratelli, le corse nei campi in bicicletta, i giochi con gli amici delle case vicine, i lavoretti col nonno, caricare le balle di fieno o le casse di pomodori, spostare i tubi per l’irrigazione, portare da bere alle donne che lavoravano nei campi, raccogliere la frutta e le verdure, i meloni e le angurie…
Già, le angurie. Ho già raccontato della nonna – e del nipote sottoscritto – che mangiavano pane e anguria.
Ma la nonna era una miniera di ricette, come tutte le nonne (e tutte nella sua testa, forse qualcuna scritta da qualche parte, chissà dove), di pranzi e cene ottimi tutti i giorni, ma memorabili nelle occasioni speciali, quando c’eravamo tutti – Pasqua, qualche compleanno, Ferragosto, e anche il mio di compleanno, il 3 agosto.
Il pranzo di Ferragosto era sempre sovrabbondante, e ottimo. I ricordi dei tanti pranzi si accavallano, ormai. Ricordo le teglie di verdure, i pomodori al forno (tagliati a metà, un filo d’olio, uscivano a metà fra il morbido e l’abbrustolito).
L’oca arrosto – c’è stato un tempo in cui avevamo un po’ di oche, e di tanto in tanto portavo (il branco? il gregge?) le oche, bianche, grandi, a pascolare nei campi fuori dal pollaio. Ore e ore, non volevano mai rientrare… E mangiarle arrosto era una piccola vendetta.
Oltre agli arrosti (forno a legna, ovvio, per un certo numero di anni), i cappelletti, ripieni di parmigiano, uova e noce moscata, direi, forse un po’ di pane, nel brodo di cappone o di gallina, che venivano mangiati anche loro (magari anche con qualche pezzo di manzo lesso), con la salsa di cipolle e pomodori, o con la salsa verde, prezzemolo uovo acciughe e fors’anche un poco di mollica di pane imbevuta nell’aceto, forse no, chissà.
E le torte, la mitica sorbettiera, di cui sto cercando di recuperare le tracce, la crostata di marmellata con una copertura fatta di un mix di amaretti meringa e mandorle, la zuppa inglese, il budino a due strati, vaniglia e cioccolato, con in mezzo gli amaretti, e un po’ di Alchermes (l’ho riassaggiato, più o meno, un solo strato senza vaniglia, dai Sibani a Chiusa Ferranda, di cui ho parlato qui). Anche, pesche al forno con l’amaretto. E i chisolini (gnocco fritto), in quantità industriali, che in realtà erano colazione o merenda, ma dolce se ci mettevamo lo zucchero, salata se con il sale.
Al mare, i pranzi ferragostani non erano così sontuosi. Per un certo periodo siamo andati a Igea Marina – fine anni Sessanta, primi anni Settanta. L’albergo si chiamava Villa Gori, e non si mangiava male mi pare (ma insomma da bambini non si aveva molto spirito critico).
Ricordo le grandi mangiate di cozze e pesce fritto in un ristorante dietro l’albergo, i gelatoni sul lungomare (Pesca Melba, Banana Split, cose del genere), e la stracciatella del gelataio di fronte alla pensione, che ce la faceva assaggiare direttamente dalla gelatiera. Buonissima, uno di quei sapori che inseguo ancora oggi (con alterni risultati).
Una volta presa la casa a Rapallo, i pranzi anche ferragostani sono diventati casalinghi, con la cucina di mamma – peperonate e cotolette, un po’ di pesce, trofie-pesto-pansoti-sugo-di-noci ovviamente acquistati in uno dei due o tre nostri pastifici di fiducia (ne è rimasto uno solo – ma vi ricordo i miei indirizzi preferiti per la spesa). Anche il papà cucinava, a volte – si metteva lì a pulire le cozze a una a una per le cozze alla marinara, a sgusciare i gamberetti per una sua versione del risotto alla certosina, a pulire le verdure per una qualche ciambotta.
Anch’io una volta ho cucinato per un Ferragosto (credo) per le mie amiche Siso e Alessandra (non so se era l’anno in cui ero innamorato di quest’ultima); ricordo una specie di insalata di melone e gamberetti in maionese, e direi un pesce spada coi peperoni di cui sto cercando di ritrovare la ricetta in casa…
Qualche volta a Ferragosto si mangiava giù ai Bagni Bristol, con parenti e amici, in grandi tavolate ferragostane, con il pesce pescato dai bagnini la notte prima. Oppure a casa degli zii, o dei loro vicini. Ricordo una sera sulla terrazza di un pittore – dopocena, qualche superalcolico (sì, avevo l’età per bere), vuoi assaggiare questo?, mi fa qualcuno, sì, aspetta che vuoto il bicchiere dell’acqua, ah, feci io, dopo aver svuotato mezzo bicchiere, non è acqua, è quel whisky che mi avevi dato prima…
E qualche volta si mangiava in giro – c’erano due o tre ristoranti fra Rapallo e Santa Margherita (da Mario mi pare, sul lungomare) in cui si andava con gli zii. Ricordo un ristorantino di Rapallo all’inizio del Lungomare, in una viuzza, ora il locale si chiama U Bansin, non ricordo se il nome era quello: avevo scelto un pagello allo champagne, subito imitato da mia zia Wanda, amante peraltro dello champagne. Risultò essere decisamente buono, e io ragazzino ero felice di aver in qualche modo indotto la zia a ordinarlo. Ero già un influencer…
Mangiare in agosto è anche costruirsi dei ricordi con le persone care.