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27 Marzo 2017 Aggiornato il 27 Marzo 2017 alle ore 13:06

Sfruttamento. Storia di Ginevra e di 3 giovani che non vorremmo più leggere e che forse ascolteremo a Report

Quanto vale uno stagista? Poco pochissimo. Insieme all'apprendista sono le figure nelle cucine e nelle sale dei ristoranti che ricevono lo stipendio più
Sfruttamento. Storia di Ginevra e di 3 giovani che non vorremmo più leggere e che forse ascolteremo a Report

Quanto vale uno stagista? Poco pochissimo. Insieme all’apprendista sono le figure nelle cucine e nelle sale dei ristoranti che ricevono lo stipendio più basso.

E in alcuni casi invece di lavoro giovanile si può parlare di vero e proprio sfruttamento.

Non c’è da fare di tutta erba un fascio, ma se sono arrivate copiose le mail di risposta al nostro invito di contattarci o di contattare la redazione di Report in vista della puntata intitolata Sotto le stelle preparata da Bernardo Iovene che andrà in onda stasera alle 21:30 su RaiTre, vuol dire che il fenomeno esiste.

E non è sporadico.

Cosa ha riscontrato Report? Ovviamente lo sapremo solo a puntata trasmessa anche se qualche anticipazione ha fatto comprendere che il tema della ristorazione sarà illustrato da più punti di vista.

Nel frattempo, una mail inviata ai due indirizzi potrebbe chiarire il terreno su cui si è mossa l’inchiesta.

Gentile redazione di Scatti di Gusto,

Gentile redazione di Report,

Nel ringraziarvi per aver portato questa problematica all’attenzione dell’opinione pubblica, colgo l’occasione per esporre la mia visione sul mondo della ristorazione. 

Mi presento, mi chiamo Ginevra. Sono entrata nel settore ristorativo per necessità quando ero molto giovane e cioè nel 2007. Ho imparato un mestiere che non conoscevo e che all’inizio mi metteva un po’ in difficoltà vista la mia timidezza. Ho sempre avuto ben in mente il valore del lavoro e del sacrificio infusomi dai miei genitori pertanto ho continuato a fare le stagioni qua e là, incominciando ad apprezzare questo lavoro seppur faticoso. Piano piano si capisce un po’ come è fatto questo mondo, molto distante da quello che ci propinano nelle decine di trasmissioni televisive. Come tutti ben sanno, c’è molto lavoro nero e molti straordinari non pagati, dalla pizzeria/trattoria al ristorante stellato. 

Una volta approdata in un ristorante stellato, pensavo che le cose sarebbero state un po’ diverse… e invece no. Mi sono scontrata con turni quotidiani da 10-12 ore (minimo) senza nessuna corresponsione degli straordinari e intervalli per riposo notturno inferiori alle 7 ore.

Ho avuto modo di sentire con le mie orecchie da persone che ricoprivano ruoli importanti nella struttura dire che noi (noi inteso come appartenenti alla brigata di sala) siamo un costo perché riceviamo in dotazione una divisa che ci viene puntualmente lavata e stirata, perché ci viene fornito vitto e alloggio e perché rompiamo piatti e bicchieri, che ci dobbiamo ritenere fortunati di avere un lavoro e ricevere per questo uno stipendio. E poi la chicca, quella che nel repertorio del perfetto umiliatore non può mancare, ovvero l’elogio ai dipendenti che seppur malati venivano comunque al lavoro, portati come esempio da seguire. 

Scioccata da tutto questo, essendo fermamente convinta che un lavoratore sia una risorsa preziosa per l’azienda e non un peso/costo e trovando ingiusto come all’interno della stessa azienda i reparti di sala, bar e cucina ricevessero trattamenti diversi dai lavoratori degli altri reparti, ho provato ad esplicare questa mia visione alla dirigenza che però ha visto bene di fare orecchie da mercante.

Al che mi sono recata presso la guardia di finanza munita di prove sui turni imposti senza però trovare nessun tipo di sostegno. Mi invitarono a desistere in quanto la denuncia va fatta col proprio nome e questo avrebbe potuto portare a ripercussioni su altre persone e sulle loro posizioni lavorative. Ho provato molta rabbia quando il finanziere (non ricordo adesso il suo grado) mi disse: ” Sa signorina, talvolta la giustizia si trasforma in ingiustizia…” E lì ti senti impotente, ti senti piccola piccola davanti ad una montagna insormontabile.

Molte delle persone che lavorano in questo settore non si espongono per paura di perdere il lavoro o perché si ritengono fortunate di ricevere uno stipendio e non vedono neanche il motivo per cui lamentarsi, poi ci sono quelli che sono convinti che in questo settore tutto ciò sia normale perché “si deve fare gavetta” e che i sacrifici verranno ripagati. Ma io mi chiedo: perché negli altri settori questo non avviene? Perché si deve dimostrare di essere validi solo tramite la facilità di asservirsi ai datori di lavoro? Perché per essere considerati professionali si deve svendere il nostro tempo? 

Io penso al contrario che in questo settore si stia assistendo ad una svalutazione costante del nostro lavoro portando così ad una forte frustrazione data dalla consapevolezza che il proprio tempo e il proprio lavoro svolto non valgano niente. Per un imprenditore risparmiare sul costo del personale è la soluzione più semplice e immediata, così si arriva ad assumere persone non competenti, persone che non conoscono le lingue straniere facendo così scadere il livello del servizio nei locali italiani. Mentre nel frattempo i più bravi scappano all’estero, portando via quel bagaglio culturale e professionale che impoverisce sempre di più il nostro Paese e spesso questi lavoratori non tornano più. 

Un’altra arma spesso utilizzata dai “capi” è quella di far credere di lavorare nel posto più bello del mondo e che altrove le condizioni lavorative sono al massimo uguali, se non peggiori e quindi è inutile ribellarsi, nei ristoranti non sarà mai possibile lavorare le canoniche 40 ore settimanali, previste dal contratto collettivo nazionale. E qualcuno finisce per crederci, specie se questo qualcuno proviene da zone o Paesi in cui le condizioni di lavoro sono peggiori. 

Fino a che non si invertirà questa tendenza, il settore ristorativo italiano è destinato a scadere sempre più. Ma come si fa a scongiurare tutto questo?

Ritengo che la soluzione debba essere politica: si deve innanzitutto abbattere il costo del lavoro in modo da agevolare le assunzioni e allo stesso tempo aumentare i controlli, l’Ispettorato del lavoro, almeno in certe zone, sembra praticamente scomparso. Così facendo, quello che prima veniva fatto da una sola persona in turni da 12 ore o più, verrà fatto da 2 persone, diminuendo così la disoccupazione e aumentando il gettito fiscale. I lavoratori saranno più felici e dunque più produttivi, avranno tempo per svagarsi e coltivare le proprie passioni, magari legate al proprio lavoro, per accrescere le proprie conoscenze del settore, quindi spenderanno, facendo aumentare i consumi. Questo è un ragionamento che può essere applicato a tutti i settori naturalmente, perché non è vero che in Italia non c’è lavoro, in Italia c’è tanto lavoro nero e tanto sfruttamento, cerchiamo di far emergere quello e già un duro colpo alla disoccupazione verrebbe sferzato. 

Avendo cercato di fare una sintesi del mio vissuto e delle mie opinioni sul settore, mi rendo disponibile per un’eventuale intervista nell’inchiesta portata avanti da Report, nella speranza che possa servire ad altri colleghi per risorgere dalla frustrazione e dalla paura, per riaffermare il nostro valore di lavoratori e di persone. 

Preciso che sono io ad aver commentato sotto gli articoli di “Scatti di gusto” col nome fittizio di Ginevra e grazie per aver ripreso i miei commenti nel secondo articolo.

Lascio il mio recapito telefonico, qualora servisse: 346.xxxxxx

Un cordiale saluto e un grande augurio di buon lavoro,

A.A.

Ma siamo anche andati in giro a fare domande e ad ascoltare stagisti, commessi, tirocinanti: ecco alcuni degli interventi (i nomi sono di fantasia).

Iniziamo con la testimonianza di Martina, stagista:

L’ALMA è una delle poche scuole, forse l’unica, che non prevede un orario di stage, lo decide la struttura stessa: difatti rispetto agli altri stagisti io lavoro sempre 13 ore al giorno. Il fatto è che ALMA manda gli allievi nelle strutture migliori d’Italia, ti mostrano com’è la vita lì. E il mio stage prevede una serie di voti determinanti per l’esito dell’esame che andrò a fare.

Quindi il tuo non è uno stage retribuito?

Assolutamente no. Lo stage è necessario per la buona riuscita dell’esame e so che se vorrò ottenere un buon voto dovrò stare a certe regole, per esempio lavorare più di 8 ore al giorno. I miei primi giudici sono coloro che lavorano con me in laboratorio, i dipendenti veri e propri. Ma io stringo i denti: ormai manca poco.

Supponiamo che sia la scuola a decidere dove mandarti: secondo quali criteri?

La scuola fa un’analisi vera e propria dei suoi allievi durante il percorso di apprendimento, osserva quanto sei in grado di reggere certi ritmi, per esempio durante le lezioni teorico-pratiche, le assenze che fai ecc. E a seconda del tuo carattere ti manda in una struttura o in un’altra. La scuola sa esattamente dove e chi mandare, anche perché conosce le persone che sono all’interno.

Ma tu come vivi questa esperienza, la consideri un’occasione per te o piuttosto per l’azienda, che sfrutta le risorse che le sono state affidate?

La scuola ci incoraggia, pur sapendo a cosa andiamo incontro: ci è stato detto che avremmo lavorato davvero molto ma al tempo stesso di essere forti perché ci sarebbe servito per il futuro. Non vivo quest’esperienza come uno sfruttamento: io sono in questo posto, la vita lavorativa qui è così, e ho deciso di viverla appieno. Ma ho anche capito che non è la vita che fa per me, sinceramente. Lavorativamente, ci starei forse solo un anno per il curriculum, ma un orario così ti uccide fisicamente e mentalmente.

E lo chef? E’ al corrente di tutto questo? Non interviene in qualche modo per il benessere dei suoi collaboratori?

Lo chef? Ovvio che lo sa, anche se poi lui c’è e non c’è. Ma è ovvio che sappia come funzionano le cose. A lui conviene, tutta forza lavoro gratis. Se poi noi stagisti stiamo zitti, se nessuno si lamenta, tutto continua così. Il problema vero però sta nel sistema. Io adoro la mia scuola, mi piace tantissimo – ma è tutto sbagliato dal principio. Il mio chef a scuola lo ha detto da subito – voi andrete lì e lavorerete tantissimo – mentre all’estero c’è un’altra mentalità. Da noi le scuole di ristorazione ti preparano psicologicamente da subito, ti dicono che dovrai fare le tue 14 ore, quindi quando arrivi in questi posti non ti lamenti perché sai già che è così, perché la normalità italiana è questa”.

“Si sa che in ristorazione è così, quindi è normale.” Ma forse non è tanto normale. E il discorso non cambia per i tirocinanti, che vengono retribuiti 600 € al mese per svolgere 70 ore lavorative a settimana (contro le 40 previste), scandite non solo dalla fatica della mansione ma anche dalle pressioni quotidiane che l’ambiente implica.

Perché nessuno si lamenta? Dice Diego, tirocinante:

Qualcuno in realtà si lamenta per le condizioni del rapporto lavorativo e molla, con conseguente turnover del personale almeno ogni 6 mesi. Teoricamente dopo le tue 8 ore sei libero di andare: ma così facendo si creano delle inimicizie con gli altri collaboratori. Ti ritrovi a subire un vero e proprio mobbing da parte dei dipendenti, quelli assunti regolarmente. Se lasci il posto di lavoro relativamente presto, allora cominciano a pressarti o ti affidano solo mansioni poco gratificanti, ad esempio le pesate o il lavaggio delle stoviglie.

Per l’azienda non conta il benessere del suo personale? Come si mantiene uno standard di qualità elevato se il personale cambia così spesso?

Da quando lavoro qui ho capito che la politica interna è quella di sfruttare il più possibile le persone. La filosofia dell’azienda è “qui è così, se non ti va bene c’è la fila dopo di te – avanti il prossimo”. Del resto, la popolarità raggiunta dal nostro chef mediante lo schermo televisivo fa sì che la qualità la determini il cliente stesso, che acquista a prescindere dal livello più o meno alto del prodotto.

A condividere queste frustrazioni non solo stagisti e tirocinanti, ma anche altre categorie di lavoratori, come gli addetti alla vendita, coloro che quotidianamente vivono il rapporto col pubblico. Abbiamo parlato con Bea, commessa. Come hai cominciato?

Tutto è iniziato dalla mia passione per questo tipo di prodotti. E quando mi si è presentata l’occasione di entrare a far parte dello staff di un punto di vendita importante e famoso, non me lo sono fatta ripetere due volte. Ero entusiasta. Ma l’entusiasmo iniziale si è trasformato dopo pochi mesi in una delusione, cresciuta giorno dopo giorno a causa delle condizioni lavorative (soprattutto psicologiche) pressanti. Ho capito presto che se non sei complice di certi meccanismi sei tagliata fuori da tutto il contesto. Ci sei ma è come se non ci fossi.

Di quali meccanismi parli?

Parlo della disponibilità. Tutto sta a garantire la massima flessibilità oraria (nonostante le 40 ore contrattuali stabilite), la disponibilità a fermarsi oltre l’orario di lavoro se necessario, soprattutto nei periodi più intensi legati alle festività. Fondamentalmente la disponibilità a dire sempre sì.

Ti è capitato di fare molti straordinari?

Personalmente non ho mai potuto garantire una grande flessibilità, salvo nei periodi natalizio, pasquale e via dicendo, dove le ore settimanali sono diventate almeno 20 in più alla settimana. I miei colleghi invece sono sempre stati molto più disponibili di me, e molto più desiderosi di accattivarsi la simpatia del datore di lavoro. Inoltre gli straordinari non sempre sono retribuiti perchè non si sa come pagarli: il datore di lavoro sa di non aver rispettato i limiti di legge e sa di andare incontro a delle sanzioni.

Com’è il rapporto con i colleghi?

Il rapporto è difficile, con le colleghe addette al banco così come con i collaboratori addetti al laboratorio, che spesso riversano le loro frustrazioni su di noi. Ogni risorsa modifica il proprio carattere e si uniforma all’ambiente.

Spesso anche lo stipendio rientra tra le cause di tanto nervosismo, sempre troppe le ore lavorative in più e sempre troppo pochi i soldi in busta paga.

Sappiamo che molti dipendenti, stagisti o tirocinanti lasciano il posto di lavoro proprio a causa dell’ambiente sfavorevole. Tu riesci a sdrammatizzare queste difficoltà?

Non le sdrammatizzo, le vivo sino a quando non avrò trovato di meglio. Sappiamo benissimo che il panorama lavorativo del momento non offre molte opportunità e per questo è sempre difficile lasciare un posto di lavoro, nonostante non ci gratifichi né personalmente né economicamente.

Ma ritengo che oltre alla necessità economica ce ne sia una altrettanto importante che è quella morale. I grandi chef dovrebbero fermarsi un attimo e capire che nel successo televisivo e mediatico conta anche il punto di partenza. Le cucine e i laboratori, i collaboratori che tutti i giorni lavorano almeno 12 ore per garantire la continuità e la qualità del prodotto, meriterebbero maggiori attenzioni e gratificazioni.

Sarà questo l’argomento portante della puntata?

O lo spazio maggiore sarà dedicato a chef e guide?

Stasera ne sapremo di più.

 

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