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24 Ottobre 2019 Aggiornato il 24 Ottobre 2019 alle ore 17:48

Sate & Sake, il food truck malese che ci invidia tutto il mondo, è a Torino

Mezzo mondo parla di questo food truck di cibo malese che si può trovare per strada a Torino. Si chiama Sate & Sake, il camioncino, mentre il nome del
Sate & Sake, il food truck malese che ci invidia tutto il mondo, è a Torino

Mezzo mondo parla di questo food truck di cibo malese che si può trovare per strada a Torino. Si chiama Sate & Sake, il camioncino, mentre il nome del giovane imprenditore, direttamente dalla Malesia, è Justin Yip.

A quanto si legge su Atlas Obscura, ma anche su Mashable, e mi par di capire anche su siti malesi, Sate & Sake vende satay e curry tradizionali malesi: ovvero, saté (/sa’te/ n.), che è il nome indonesiano dei satay malesi, spiedini di carne cotti alla brace secondo la tradizionale ricetta malesiana, indonesiana e tailandese, insieme al saké (/sa’ke/ n.), bevanda alcolica tipica del Giappone ottenuta tramite un processo di fermentazione che coinvolge riso, acqua e spore koji. Così il sito, peraltro estremamente essenziale – per le notizie pratiche , si rimanda alla pagina Instagram, da cui si apprende che S&S è nato attorno a maggio 2017, e che lo si trova “Da lunedì a venerdì. Ora di pranzo (11.30-14.45) Corso Castelfidardo fuori dal Politecnico, pista ciclabile”. C’è anche una pagina Facebook, e un entrambe compaiono i piatti speciali per la settimana – fino a venerdì c’è il Daging Masak Merah, uno spezzatino di manzo con sugo di pomodoro e peperoncino.

Justin Yip si è trasferito in Italia nove anni fa, e si è laureato presso l’Università di Scienze Gastronomiche di Bra. Come spesso accade (anche a Gen Ohhashi, giapponese, architetto con studi in Italia, passato per Pollenzo e ora alla guida di Ciotto),  si è innamorato del nostro paese, e ha pensato al food truck come mezzo per rimanere, ma anche per proporre agli italiani, e agli studenti italiani, un prodotto nuovo, completamente estraneo alle nostre tradizioni, ma soprattutto per restituire agli studenti del sud-est asiatico alcune preparazioni della loro cultura gastronomica. 

Ma se l’intento era quello di proporre un fast food etnico per asiatici, soprattutto per gli studenti asiatici, la realtà si è dimostrata ben diversa: la maggioranza della clientela (un 90%?) è italiana. “Speravo di conquistare alcuni italiani, ma non mi aspettavo così tanti”, dice Yip. Certo, le tecniche tradizionali malesi sono state ‘adattate’ al gusto italiano, specie per quanto riguarda piccantezza e dolcezza, mitigate rispetto agli standard malesi (“Dolce e salato non si mescolano qui”).

Non possiamo fare a meno di notare che su Facebook S&S ha 530 mi piace e 552 follower, mentre su Instagram di follower ne ha 683, numeri che non fanno pensare a un seguito popolare così intenso o a folle oceaniche che si contendono gli spiedini di Saté & Saké. Va però detto che il truck non si muove più di tanto, ovvero lo si trova sempre nello stesso posto, che è poi presso l’università, ovvero a portata di mano, e di bocca, di quello che è dichiaratamente il suo pubblico d’elezione, quello degli studenti, malesi o asiatici o italiani.

Quello che colpisce però, nell’articolo di Luke Fater su Atlas, sono le affermazioni sull’Italia e sulla diffidenza degli italiani per i cibi stranieri. Fatte salve le lodi al nostro Paese per l’eccellenza dei prodotti e della gastronomia, si cita uno studio della Coldiretti datato 2011, secondo il quale il 40% degli italiani non aveva mai mangiato cibo straniero. Che da un lato non mi sembra una percentuale tragica, ma dall’altro non tiene conto dello spartiacque costituito da Expo2015, motore di traino per la ristorazione mondiale, che ha in qualche modo “invaso” sicuramente Milano ma ha preso piede anche nel resto d’Italia.

Certo, il giornalista cita una serie di episodi che non ci fanno particolarmente onore: nel 2009, Lucca ha smesso di rilasciare permessi a ristoranti non italiani, “per preservare la nostra identità culturale e storica”, come ha affermato un membro del consiglio comunale. Lo stesso è accaduto a Forte dei Marmi nel 2011 e di nuovo a Firenze nel 2016. Il Ministro dell’Agricoltura del tempo è apparso in una conferenza stampa a sostegno di queste misure che vietavano la cucina straniera. Alla domanda se avesse mai mangiato il kebab, ha risposto: “No. Preferisco i piatti del mio nativo Veneto. Mi rifiuto persino di mangiare un ananas.”

Un altro studente di origini malesi, Hasan Rosman, ha avuto lo stesso problema cucinando per gli amici italiani. “Sono molto arroganti riguardo al cibo straniero. Sono abituati a ingredienti semplici, quindi quando provano qualcosa di diverso, magari più colorato e vivace, si preoccupano di avere problemi di stomaco.”

Un ulteriore dettaglio aggiunto al quadro dipinto da Atlas Obscura: nel 1986, centinaia di persone si radunarono a Piazza di Spagna a Roma per protestare contro l’apertura del primo franchising McDonald’s in Italia, distribuendo piatti di pasta (penne) gratuitamente. Le proteste hanno dato vita al movimento Slow Food, che coinvolge milioni di persone in oltre 160 paesi. La sede di Slow Food è a Bra, in Italia, a un’ora dal camion di Yip. 

Del resto, continua Fater, oltre alla diffidenza della popolazione, bisogna anche tener conto delle regole irrealistiche che rendono anche solo il parcheggio del food truck una sfida. Per legge, il camion deve essere spostato ogni ora, anche se a Yip occorrono 15 minuti per l’installazione e altri 15 per l’imballaggio. Gli è anche vietato operare entro 200 metri da una scuola o 100 metri da una chiesa. “Ma questa è l’Italia”, dice, “c’è una chiesa in ogni angolo”.

Sarà per questo che Justin Jip sta (già?) pensando a un locale fisso?

[Link: Atlas Obscura]

Emanuele Bonati
"Esco, vedo gente, mangio cose" Lavora nell'editoria da quasi 50 anni. Legge compulsivamente da sessant'anni. Mangia anche da oltre 60 anni – e da una quindicina degusta e racconta quello che mangia, e il perché e il percome, online e non. Tuttavia, verrà ricordato (forse) per aver fatto la foto della pizza di Cracco.
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