Sono andata a Budapest per mangiare cucina mediorientale
Per me e il mio partner in crime, che sarebbe stato anche autore di tutte le fotografie di questo articolo se le avesse scattate, mangiare non è mai stato un problema.
E non lo è stato nemmeno a Budapest.
Non è questa la sede per parlare di quanto sia delizioso il goulash, o gulyas in ungherese, né di quanti posti fantastici troverete per assaggiare cervo, oca e anatra (mi perdonino vegetariani & vegani), né della miriade di luoghi di perdizione che grazie allo zucchero e al burro hanno costruito un impero (vedi una delle migliori Sacher di Budapest al Gerbeaud Café).
Questa è la sede in cui io e Franz aka Francesco Sammarco abbiamo deciso di approfittare dei nostri cinque giorni a Budapest per testare una cucina che difficilmente si può trovare di qualità in Italia: quella mediorientale.
Mi direte voi:
Ma cosa c’entra la cucina mediorientale con la capitale ungherese?
Due minuti da Superquark: allo scoppio della seconda guerra mondiale, le persone di origine ebraica residenti a Budapest erano circa 246 mila. Nonostante l’Ungheria fosse alleata della Germania, l’occupazione nazista rese loro la vita non facile. Ad un certo punto prese il potere un partito anti semita e buona parte di quella popolazione fu costretta a marciare a piedi verso i campi dell’Austria.
I restanti furono relegati in quello che oggi viene conosciuto come Distretto VII, Erzsébetváros, ovvero il ghetto ebraico di Budapest.
Ovviamente non c’è bisogno di spiegare cosa capitò. Basti solamente pensare che il 16 aprile 2005 fu eretto sulle rive del Danubio un memoriale che chi ha visitato la città ha sicuramente avuto modo di incrociare: una lunga fila di scarpe in bronzo abbandonate, in ricordo degli ebrei che hanno perso la vita in quegli anni di guerra.
Quando nel 1945 le ruppe sovietiche liberarono Budapest, di quei 246.000 ebrei ne rimanevano la metà, di cui 68.000 residenti nel ghetto.
Se questo non bastasse, la concentrazione di popolazione originaria dei paesi del medioriente, già radicata a Budapest, negli ultimi anni ha attirato molti rifugiati provenienti da Siria, Libano e paesi limitrofi, arricchendo così una tradizione, culinaria e non, già molto florida.
In questo meraviglioso quartiere, in cui vi consigliamo anche di alloggiare, possiamo trovare la maggiore varietà di ristoranti mediorientali, tra cui molti kosher, alcuni siriani e palestinesi e dei deliziosi libanesi. Alcuni di questi, sono diventati dei veri e propri place to be, non solo per i turisti, ma soprattutto per la gente locale. Cosa che ci piace tanto quando dobbiamo testare un nuovo ristorante.
Ma cosa si mangia nei ristoranti mediorientali?
Quello che accomuna tutti i ristoranti mediorientali è la bellissima cultura delle mezze o meze (che i più attenti avranno potuto apprezzare anche nella cucina greca, araba e turca). Non si tratta d’altro che di una selezione di piccoli antipasti, solitamente serviti tutti insieme in ciotole coloratissime, per la gioia della vista e del palato.
Riprendendo un attimo il discorso precedente, riguardo alla cucina mediorientale, e araba in senso più ampio, non ci dovrebbe essere il minimo timore: insieme a quella mediterranea, cinese e indiana, fa parte del poker delle cucine madri di tutto il mondo, dalla quale, se posso sottolineare, derivano anche tante ricette italiane, soprattutto del sud.
Noi, nei nostri cinque giorni a Budapest, abbiamo avuto la fortuna di provare tre di questi ristoranti mediorientali. Beh, tre e mezzo, considerato “l’aperitivo” dell’ultima sera. Tutti e tre, senza dubbio, assolutamente da leccarsi i baffi.
Prima tappa: Macesz Bistro (Dob Utca, 26)
Questo piccolo ristorantino, situato in una vivacissima arteria del Distretto VII, è stato il primo posto in cui abbiamo cenato nella capitale. La nostra prima volta, l’incontro con la semi sconosciuta cucina ebraico-ungherese di Budapest.
Devo dire la verità: era un locale che avevo segnato in lista già dall’Italia. E fortunatamente quella sera, nonostante ci fosse tantissima gente in giro e i ristoranti fossero praticamente tutti pieni, aveva un tavolo libero per due.
Bene, il posto è carino, accogliente e soprattutto, grazie a Dio, meravigliosamente caldo. No, perché fuori ci sono -2°, e ok che Franz non soffre mai il freddo, ma io sto per diventare Mr.Freeze.
I camerieri sono gentilissimi e dal menù, ricco ma non troppo, intuiamo subito che si tratta di una cucina ebraica con un tocco di modernità. Da ignorante in materia, la prima cosa che mi salta all’occhio è un invitante hummus con latte di cocco, curry rosso e lime.
Ecco cosa intendevo per tocco di modernità. L’hummus è l’unico piatto mediorientale che conoscevo ed ero praticamente certa che nella ricetta originale non ci andasse né il cocco né il curry. Ma tant’è. Ci piace sperimentare, perciò lo ordiniamo. Insieme ad un gulasch (ok, lo ammetto, non è mediorientale ma volevo provarlo) e delle uova, testualmente: “Jewish style egg, goose cracklings, jewish lard, red onion”, quindi uova, ciccioli d’oca, una specie di bacon e cipolle in agrodolce. Beh sì, non proprio la fiera del fitness di Rimini ma a noi piace il grasso. E gli abbinamenti insoliti.
Senza dilungarmi, dico solo che l’hummus è qualcosa di sensazionale: si sentono i ceci, il lime, la tahina, il cumino e, ultimo ma non ultimo, un retrogusto leggerissimo e paradisiaco di cocco. Per gli amanti del cocco, come me, è puro orgasmo.
Ho provato a replicarlo ma, nonostante sappia il fatto mio ai fornelli, il risultato non è stato identico. Purtroppo.
Ricorderò per sempre l’hummus di Macesz. L’hummus di Macesz che abbiamo amato così tanto da farci tornare una seconda volta. E fidatevi se vi dico che ne vale la pena, perché noi non torniamo mai due volte nello stesso posto.
Durante la nostra seconda visita, abbiamo deciso di addentrarci ancora di più nel provare piatti tipici ebraici. Così la nostra scelta è ricaduta, ovviamente sull’hummus al cocco (ero già in crisi di astinenza), e sullo cholent.
Non avevamo la minima idea di cosa fosse, perciò, DOPO averlo ordinato, facciamo una piccola ricerca: lo cholent è un stufato tradizionale della cucina ebraica, i cui ingredienti base sono fagioli, carne di manzo, patate e orzo.
Quello che il cameriere ci porta qualche minuto dopo è la versione naïve e raffinata del piatto sopracitato: invece del manzo c’è il petto d’anatra affumicato (una delle cose più buone mai mangiate a Budapest), invece delle patate c’è un uovo e delle cipolle rosse in agrodolce. Che ricordano il gusto dei cetriolini sott’aceto. Delicious. E invece dei fagioli? Niente, i fagioli ci sono, con tutto l’orzo.
Sicuramente non è stato il piatto più digeribile ed etereo del mondo ma era buono. E abbiamo avuto l’opportunità di assaggiare qualcosa di tipico. Ad un prezzo molto contenuto, come potete verificare dai prezzi del loro menu (non vi spaventate per le quattro cifre: sono fiorini ungheresi).
Sui dolci pecchiamo di assenza. Non ne abbiamo assaggiato nessuno ma in carta il Macesz ha una torta tipica ebraica, la Flodni Cake, dei cubotti a cinque strati che prevedono questi ripieni: semi di papavero, mele, noci e marmellata di prugne, separate da una specie di pasta frolla. Anche in questo caso, niente dieta.
Seconda tappa: Leila’s Authentic Lebanese Cuisine (Paulay Ede Street, 6).
Ci troviamo nel Distretto VI, quasi a ridosso di Belváros, uno dei quartieri più centrali della capitale. Ci facciamo belli, anche se coperti da strati e strati di pellicce e calzamaglie, cappelli, guanti e sciarpe, e andiamo.
Il locale, a differenza di quanto si possa pensare, è estremamente minimal. Quasi nulla alle pareti, tavoli di legno, ordine e una vivacità molto contenuta tra i commensali.
Neanche il tempo di entrare che il simpatico ragazzo che aveva accolto la nostra prenotazione ci fa accomodare ad un piccolo tavolo vista griglia. Niente di meglio, così possiamo sbirciare quello che fanno gli chef dall’altra parte.
Mentre decidiamo cosa ordinare da mangiare, Franz prende una birra e io una limonata fatta in casa, con limone e menta.
Dalla sfilza di piatti invintanti che esce dalla cucina e dal profumo della carne alla griglia che mi stava impregnando i vestiti, sono sicura che non avremmo potuto scegliere meglio.
Il menu parte ovviamente con una selezione di mezze, questa volta divise tra fredde e calde. E noi abbiamo fame. Tanta fame. Nonostante siano poco meno delle 20. Quindi, grazie alla traduzione in inglese e al nostro intuito, ordiniamo.
Quasi tutto. Eh, abbiamo fame.
Dopo circa una decina di minuti di attesa, cominciano ad arrivare le prime ciotoline.
Ed è tutta lì che sta la festa: colori, colori e colori. È questo che ho scoperto di amare della cucina mediorientale: la convivialità, la condivisione, il “dibattito” che viene fuori dai piatti.
Cos’è questo? Non mi ricordo ma è delizioso. Assaggia le polpette! Non so più dove mettere i piatti, il tavolo è pieno di roba! Oh, che buone queste melanzane! Provale subito prima che le finisca!
Il nostro piccolo tavolo viene letteralmente preso d’assalto. Per le mezze fredde, abbiamo: hummus (ovviamente, questa volta in versione “original”), baba ganoush o moutabal, una crema di melanzane affumicate, con tahina e limone e il labneh, uno yogurt acido, servito con olio d’oliva, limone e prezzemolo.
Il segreto delle mezze fredde è che, sostanzialmente, sono delle salse, più o meno dense, di accompagnamento. Accompagnamento alla pita calda, che arriva puntualmente, e alla carne alla griglia. Se ci pensate infatti, pecora, montone e agnello, carni molto utilizzate nella cucina mediorientale, si abbinano perfettamente con i condimenti di base delle mezze, quali limone, yogurt, menta, legumi e ortaggi.
Per le mezze calde, invece, arrivano: i falafel, caposaldo della cucina levantina, polpettine di varie forme e dimensioni, a base di legumi, sommaco, aglio, cipolla coriandolo e cumino, seguite da delle patate al forno con coriandolo e limone e dei kebbeh o kibbeh, altre polpette ma stavolta di bulgur, manzo e frutta secca.
Dire che tutto è straordinariamente buono è un eufemismo. Io userei la parola sorprendente. È cibo molto semplice, semplicissimo, ma di pancia, di cuore, vero. Tutto il personale, gli chef, sono originari del Libano. Glielo si legge in faccia che ne sono orgogliosi. E che sono fieri di servire e far conoscere il loro cibo ai clienti. Probabilmente Leila era la madre o la nonna di qualcuno di loro. Ci scommetto.
A testimonianza di quanto ho detto, un aneddoto: mentre mangiavo, osservavo gli chef. Avevo notato che tutte le mezze fredde provenivano dalla stessa postazione in cui si grigliava la carne, quindi praticamente a braccetto della mia sedia. Una cosa in particolare aveva catturato il mio sguardo, una pietanza che non avevamo ordinato: una ciotola piena di una cremina rossastra, da cui proveniva un profumo sublime.
Io avevo guardato. Un paio di volte. Forse anche tre o quattro. E lo chef aveva guardato me. Aveva capito che volevo quella ciotola. Così, senza dire una parola, dopo qualche minuto, un cameriere si avvicina al nostro tavolo e ci porta un regalo inaspettato.
“Un omaggio da parte dello chef” dice, sorridendo. Io guardo lui, la ciotola e infine Franz. Poi, mi volto verso lo chef che, senza dire niente, mi fa un occhiolino complice. Evidentemente il mio sguardo libidinoso aveva parlato al posto mio.
È vero, stavamo per scoppiare come due pinguini obesi, ma un regalo non si rifiuta mai. E meno male, devo dire. Grazie signor chef Malandrino. Perchè in quella ciotola c’era la cosa più deliziosa, fantastica e paradisiaca di questo mondo: una crema di peperoni, noci, melassa di melograna e olio d’oliva che i libanesi chiamano muhammara, quella che potrebbe essere la Cenerentola delle salsine mediorientali, la meno conosciuta ma la più buona, la più strong, quella con più carattere. Quella dell’ultimo minuto.
Avrei voluto baciare lo chef in bocca. Non tanto per la bontà della salsa ma per la sua.
E il conto? Ridicolo. Nemmeno 50 € per tutti e due.
Ah, e se volete bere qualcosa subito dopo cena, proprio di fronte al Leila’s trovate il Boutiq Bar, uno dei migliori di Budapest, inserito in passato addirittura nella lista dei migliori 50 cocktail bar al mondo.
Terza tappa: Dobrumba (Dob Utca, 5)
Piccolo consiglio spassionato se decidete di mangiare al Dobrumba: prenotate, prenotate, prenotate, prenotate!
Ok, credo che il messaggio sia stato recepito, no?
Questo posto, se volete provare la cucina mediorientale di Budapest, non potete assolutamente farvelo sfuggire. E per non farvelo sfuggire, dovete fare una sola, semplice cosa: prenotare. Anche tramite Facebook. Vi rispondono, fidatevi. E vi tengono il tavolo. Mandategli una mail, scrivetegli su Messenger, chiamate, quello che volete. Ma fatelo. Perchè è sempre strapieno. Ed è uno dei posti dove abbiamo mangiato meglio, sia mediorientali che non.
Torniamo nel nostro amato Distretto VII.
Ci avete fatto caso che la strada è la stessa del Macesz? Ve l’avevo detto che è una delle arterie principali del ghetto ebraico. Decidiamo di mangiare al Dobrumba per il nostro ultimo pranzo della vacanza. Ovviamente, prima prenotiamo.
Innazitutto, il locale è molto hipster. Cosa che adoro. E hanno degli orari molto flessibili: si può pranzare addirittura fino alle 16, cosa per nulla scontata a Budapest.
Certo, il personale non è il massimo della gioia e dell’allegria, ma chissene, anche i migliori hanno i loro difetti.
Questo è il loro slogan: From the Atlas Mountains to Ararat, from the Bosporus to Gibraltar, all at home in Budapest’s seventh district. Dunque, non solamente cucina mediorientale ma un interessantissimo miscuglio di culture, da quella libanese a quella turca, dalla cucina marocchina a quella spagnola e italiana.
Ok, per alcuni può suonare un po’ un’accozzaglia di cose messe insieme, ma posso assicurare che funziona tutto alla perfezione e ogni piatto è più buono di quello precedente.
Anche questa volta, io e Franz, non contenti dello stomaco sfondato dei giorni precedenti, ordiniamo tante cose.
Oh! Ma non vi siete stancati di mangiare sta roba? No, la risposta è no. Perché non solo è buona ma crea un’assoluta dipendenza.
La prima cosa che voglio, senza nemmeno aprire il menù, è la muhammara che il mio amico chef Malandrino mi ha fatto conoscere. Per vedere che differenza c’è, mica perchè ormai ne sono assuefatta? Figuriamoci.
E poi, tanto per cambiare, hummus e baba ganoush. La crema di melanzane di Leila’s aveva la particolarità di essere molto affumicata, segno che le melanzane erano state cotte sulla griglia. Quello del Dobrumba era meno forte di fumo ma ugualmente delizioso. Come hummus invece, ha vinto a mani bassi su tutti. La muhammara era davvero davvero buona, forse migliore di quella di Leila’s, ma per una questione affettiva non posso pronunciarmi.
A seguire, due piatti che non avevamo ancora mai assaggiato: per me una bellissima Winter Jerusalem Salad, che già solo il nome è poesia, e poi la famosa Shakshuka, entrambi due cavalli di battaglia del locale.
La mia insalata comprendeva una ricchissima varietà di ortaggi crudi e arrostiti, lenticchie, uova, olive, il tutto adagiato su una buonissima crema di sesamo. Uno spettacolo.
Discorso a parte va fatto per la Shakshuka. Ora, nonostante il nome quasi impronunciabile, vi posso assicurare che questo piatto è uno dei pilastri della cucina israeliana di derivazione magrebina, un piatto imprescindibile, come il nostro ragù o la nostra frittata nel panino. Si tratta di un piatto molto simile alle nostre uova in purgatorio, quindi comprende delle uova ad occhio di bue, per l’appunto, immerse in un sugo di pomodoro piccante, speziato e condito in varie maniere.
La versione del Dobrumba presenta la possibilità di aggiungere degli ingredienti, quali le melanzane fritte, un ragù di agnello speziato o del finocchio arrostito. Per non farci mancare niente, Franz ha deciso di prenderlo con tutto. Tranne i finocchi, perchè i finocchi sono verdura. E la verdura gonfia.
Devo dire la verità. La Shakshuka era una bomba. Peccato che nel ragù di agnello ci fosse la cannella. E io odio la cannella come il Grinch odia il Natale. Mi fa vomitare. Ma, a detta del mio partner era davvero un ottimo piatto. La mia insalata è un ottimo piatto. L’hummus è il migliore mai assaggiato. La pita è buona. Il conto è basso. E siamo rimasti tutti il tempo che abbiamo voluto.
Il tempo necessario per vedere i camerieri rifiutare circa trenta tavoli a gente che voleva sedersi ma che non aveva prenotato. Quindi, tenete a mente il consiglio.
Ah, per gli appassionati dell’anice: provate l’arak. È una specie di variante del pastis francese o della nostra sambuca, un liquore super alcolico aromatizzato all’anice, servito con acqua e ghiaccio. Fidatevi, se avete bisogno di digerire come ne avevamo noi, è la salvezza. Ed è pure buono.
Quarta tappa: TLV Eatery (Dob Utca, 19).
Stessa spiaggia, stesso mare. Sempre Distretto VII. Sempre stessa strada. Praticamente se non voleste affatto spostarvi da questa zona, non avreste problemi a trovare un ottimo ristorante in cui mangiare.
Bene gente, questo è un bonus. Non abbiamo né pranzato né cenato. Solo due birre e una porzione di patate americane con yogurt come aperitivo, qualche cetriolino e delle olive.
Però, è interessante per chi vuole provare la cuscina kosher.
I camerieri sono molto gentili e i cuochi cucinano a vista, quasi esclusivamente tutto sulla griglia, anche le verdure. La patata inoltre era buona (eh, maliziosoni) e i piatti che uscivano sembravano tutti ottimi.
Date un’occhiata al loro account Instagram. Fa venire fame.
Ne volete sapere di più? No, perché la lista è bella lunga. E magari volete diventare hummus addicted come noi. Ma vi avviso: non si torna più indietro.
Come precisato, il ghetto ebraico è un pullulare di locali fighissimi. Se volete mangiare ungherese c’è ungherese (ovviamente), se volete mangiare un panino ci sono i paninari, se volete la pizza c’è la pizza, se volete fare un brunch, ci sono locali che fanno solo brunch. C’è addirittura un locale che fa corsi di cucina locale, con tanto di vetrina a vista sulla strada. Ma se volete dare una chance alla cucina mediorientale, ecco un’altra manciata di ristoranti che potete aggiungere alla lista dei nostri.
Koleves (Kazinczy Utca, 41); Mazel Tov (Akacfa Utca, 47); Frohlich Bakery& Café (Dob Utca, 22); Fulemule Etterem (Kofarago Utca, 5); Rosenstein (non nel Distretto VII, ma uno dei migliori di questo genere. Lo trovate in: Mosonyi Street, 3).
Che dire, infine? Budapest era una città che sognavo da tanto tempo, una città che ci ha riservato tante sorprese. Una di queste è stata la cucina mediorientale. Perciò, se avete in mente una visita nella capitale ungherese, che sia lunga o breve, tra un goulash e l’altro, fate un salto ad assaggiarla.
[Testo: Deborah D’Addetta. Immagini: Francesco Sammarco, siti e social ristoranti]