Tutte le birre per una fresca estate
C’è l’odontotecnico lombardo folgorato dal luppolo, dopo che la moglie gli ha regalato un kit per homebrewer. C’è l’imprenditore orafo in crisi tentato dalla birra nella terra del Brunello. C’è la cooperativa sociale dell’Appennino alla quale una banca propone di fare birra con le sue castagne e c’è lo studente lanciato verso una luminosa carriera universitaria che annuncia, in un difficile outing famigliare, di voler fare il birraio. C’è chi abbandona Milano per fare in Lucania un’ostica birra ai fichi e c’è l’impiegato della Centrale del latte, collezionista di lattine, che col collega, anche lui appassionato di “bionde”, organizza degustazioni e poi si lancia nella produzione. E poi c’è Lui, il numero uno della birra artigianale, il faro di quella rivoluzione del luppolo che ha portato tante birre artigianali italiane nei negozi che contano al di qua e al di là dell’oceano. Quel Teo Musso del mitico Birrificio Baladin, oramai approdato allo star system del gusto, con un piede a New York (insieme a Oscar Farinetti) e l’altro ai vertici di Assobirra.
Sono solo alcune delle storie raccontate da Massimo Acanfora in “Un’Altra birra!” (Altraeconomia, 13 euro), una carrellata, davvero ben scritta, di profili di “artigiani coraggiosi” della birra, impreziosita dall’introduzione di Lorenzo Dabove, in arte Kuaska, il massimo conoscitore italiano di birre artigianali. “Luoghi, storie e persone di un mondo in fermento”, come sottotitola l’autore per un totale di 265 birrifici artigianali italiani recensiti. Un libro da qualche mese in libreria che ridiventa freschissimo in tempi di canicola.
Era il 1996, racconta Kuaska, quando “un pugno di pionieri, quasi tutti locati nel Nord del Paese, intraprese una coraggiosa avventura producendo birre vive, non filtrate e soprattutto non pastorizzate, ricche di aromi e di sapori che si contrapponevano in modo deciso alle anonime e piatte birre industriali che affollavano gli scaffali dei supermercati”. Tra i primi Agostino Arioli, fondatore del “Birrificio Italiano”, primo microbirrificio lombardo che, appassionato frequentatore di pub sin dagli anni delle scuole superiori, nel 1985 prova a fare la birra in casa e poi unisce intorno a sé 11 soci con i quali propone ai suoi clienti “una birra torbida, calda, sgasata e con un sacco di schiuma per la quale, tra l’altro, c’era da aspettare quasi dieci minuti”. Con il risultato, allora, che erano in molti a gettare la spugna, lasciando sul bancone il bicchiere ancora pieno mentre oggi “chi entra non chiede più una birretta ma chiama per nome una delle nostre creature (15 in tutto n.d.r.) e aspetta, molto volentieri, per bersi una birra torbida, sgasata e calda”.
E’ il segno dei tempi che cambiano, gli stessi che hanno visto trasformare un mondo di pionieri in uno dei settori-rivelazione del made in Italy. Un universo cabarbiamente ancorato al terroir. A parte l’orzo, ingrediente principe del quale non siamo certo tra i massimi produttori al mondo, la birra dei 280 produttori artigianali italiani è ancorata al territorio, alla sua acqua, ai suoi prodotti (farro e cereali inusuali ma anche castagne, ciliegie e pesche di origine protetta, persino il vino, con i suoi lieviti, il suo mosto e le sue barrique) e ha saputo veicolare, in un paese a vocazione principalmente vinicola, quella “creatività, originalità e fantasia, doti tipicamente italiane” che hanno ammaliato anche le grandi nazioni della birra, Belgio in testa.
La birra artigianale italiana è (ri)nata così, in un viaggio a ritroso nel tempo fino a prima della rivoluzione industriale, tra almbicchi e schiume, pellegrinaggi alle sorgenti della bevanda bionda in Belgio e Inghilterra, musica degli anni Settanta e la riscoperta della dignità dell’artigianato. Mentre la globalizzazione attenua le differenze di gusto e allunga le distanze con la clientela, gli appassionati del luppolo scoprono l’unicità e la pluralità dei sapori, il duro lavoro delle mani, i profumi del territorio e il rapporto umano con i clienti. Come al Birrificio Lambrate dove, racconta Giampaolo “siamo giocherelloni, stiamo a chiacchierare con il cliente,” che (almeno i più fedeli) può contare, nientedimeno, che “su un boccale personale depositato in birrificio”. In qualche caso sperimentano nuovi modelli di produzione e distribuzione (km 0, fonti di energia alternativa, vendita diretta, Gruppi di Acquisto e commercio equo-solidale) e nuove dimensioni etiche del fare impresa. Come la cooperativa sociale Pausa Café di Torino che produce la sua Tosta facendo lavorare i detenuti del carcere di Saluzzo e commercializza cioccolato e caffè delle comunità indigene di Guatemala, Messico e Costarica.
Anti-global nel Dna, il settore potrebbe trovarsi però presto di fronte ad un bivio: coltivare la differenza o cedere alle lusinghe del business? Kuaska racconta così la situazione: “Anche in questo mondo non è tutto rosa e fiori. Tanto per fare un esempio, la recente entrata di alcuni birrifici in Assobirra, l’associazione che raggruppa gli industriali della birra e del malto, rischia seriamente di snaturare l’idilliaco ritratto dell’artigiano puro e idealista. Chi si è fatto strada, in mezzo a mille assurdi ostacoli burocratici e a discriminazioni dovute a totale ignoranza dell’argomento, potrebbe trovare le sue creature, così vive e personali, nello stesso calderone con quelle pastorizzate che ironicamente io definisco colluttorio o cadaveri in bottiglia”.
Certo la ricerca e la cura della varietà è l’atto di nascita della birra artigianale italiana. Perché se è vero che non esiste uno stile italiano della birra artigianale, complice soprattutto la necessità di importare le materie prime, se è vero che l’Italia non ha una sua Ale come l’Inghilterra, o una sua una Stout come l’Irlanda o una sua Lambic come il Belgio e se è vero, infine, che la birra è, nell’immaginario culturale degli italiani meno giovani, la bevanda degli oppressori provenienti dalla celtica Europa, la voglia di sperimentare e la capacità di innovare hanno regalato finora all’Italia qualche momento magico. Non avremo uno stile di birra ma in compenso i tanti campanili hanno partorito le centinaia di microvarietà che sarà un piacere scoprire leggendo il libro di Acanfora. Qualche esempio: la birra col chinotto verde o con le castagne essiccate nei tecci (la N.8 e la Nivura del Birrificio Scarampola); le Beltaine dell’omonimo birrificio, nelle tre varianti bianca con castagne e frumento, alle castagne affumicate e ginepro, alle castagne, tanto apprezzate da Bottura, Vissani e Pinchiorri; la PVK, fatta con i cereali della Val d’Orcia dal Birrificio L’Olmaia; le speziate di Almond ’22 con coriandolo e cardamomo indiani, cannella di Ceylon in stecche, scorza d’arancia siciliana o iraniana, fiori d’arancio e noci moscate. Ci sono anche le pluripremiate di Birra del Borgo con radici di Genziana o foglie di tabacco Kentucky Toscano (lo stesso del sigaro) o té, frutta e aromi vari (la sua ReAle è stata l’unica birra europea a ottenere la medaglia d’oro al Festival Mondial de la Bière di Montreal).
E allora, data tanta esuberanza, come non augurarsi che tutto resti com’è? Che nella corporazione dei mastri birrai “la fratellanza” continui a venire “prima della concorrenza”, come dice Leonardo Di Vincenzo, la giornata divisa tra Bir&Fud, a Trastevere e l’impianto di Borgorose nel Reatino”. Così racconta il dilemma Moreno Ercolani, il giovane birraio toscano che ha abbandonato l’arte orafa per le schiume dell’Olmaia: “Oggi forse andiamo per i 300 ma la cerchia di chi ha iniziato qualche anno fa è ancora piccola e siamo tutti in buoni rapporti: diciamo che ci conosciamo in una ventina e sono tutti ragazzi alla buona. Quando mi capita di arrivare a una fiera del vino li trovo quasi tutti azzimati, in giacca e cravatta. Sono figli di aziende con 100 anni di tradizione, a volte un po’ fighetti. Non mi piace molto e preferirei che questo mondo rimanesse così com’è”. Come tra le schiume e gli alambicchi di un’abbazia trappista. Ma con una difficile missione da compiere: “evangelizzare” un po’ di quel 99% di italiani che la birra artigianale non l’ha mai assaggiata.