Grillo come i Bric. La riscossa dei paesi emergenti e la democrazia alimentare
E adesso che Jim O’Neil, il ‘guru’ di Goldman Sachs, ha sdoganato Grillo presso l’alta finanza, una domanda sorge spontanea: finirà come è finita con i ‘Bric’, l’acronimo inventato proprio dal presidente di fondi della banca d’affari americana per definire il quartetto dei paesi a crescita economica elevata (Brasile, Russia, India e Cina)? Finirà insomma che il nuovo-che-avanza tra le urne eguaglia i nuovi ricchi del pianeta?
C’era una volta il modello occidentale, faro di igiene e sicurezza alimentare. Con le sue regole, i suoi standard di qualità, la sua normativa al servizio del consumatore. E c’erano una volta i Paesi poveri, brutti, sporchi e cattivi.
Nel mondo che cambia alla velocità della luce, viene da lontano ma dispiega ora i suoi effetti (proprio come l’antipolitica, Grillo e la democrazia elettronica), la rivoluzione dei paesi emergenti che dettano le regole agli esportatori europei, che ergono barriere di qualità sulle merci in provenienza dall’Europa, che danno lezione di igiene a chi le ha date fino a ieri.
Sono (soprattutto) i paesi del cosiddetto Bric (Brasile, Russia, India e Cina, il 40% della popolazione mondiale), esigenti e a volte persino all’avanguardia nella normativa sulla sicurezza alimentare (è il caso della Cina dopo l’approvazione, nel 2009, di una legge molto rigorosa in materia di sicurezza alimentare), chiedono garanzie ad un Occidente che sta dando, invece, un pessimo spettacolo di sé.
Le nuove “pretese” dei paesi emergenti, tra eccessi inspiegabili e sacrosante richieste di igiene, le ha passate in rassegna il Sole 24 Ore in un articolo di Laura Cavestri. Eccone un’antologia.
Dal 1° febbraio l’importazione di Parmigiano Reggiano, Grana Padano e Provolone Valpadana è fuorilegge in Turchia (non fa parte dei Bric ma è uno dei Paesi emergenti più interessanti per l’export) che ha dichiarato guerra al latte crudo;
Le cassette di cibo in legno devono essere sottoposte a uno speciale trattamento antiparassitario quando entrano in India, Cina e Brasile;
La fattura commerciale, da produrre in 5 copie con la descrizione dettagliata dei prodotti, deve essere scritta in portoghese (in alternativa francese, spagnolo, inglese, ma non italiano) quando la merce supera i confini brasiliani (agli esportatori prudenti è consigliato, ma non è detto espressamente, di indicare anche il numero di registrazione alle Camere di Commercio dell’importatore brasiliano);
Per il vino il Brasile chiede un “bollo di controllo” emesso dalla Agenzia delle Entrate brasiliana;
Per vino e formaggio il Brasile chiede un “verbale di sopralluogo per l’accertamento dell’idoneità strutturale e igienico sanitaria degli stabilimenti”;
Per vendere il gelato in Russia occorre la certificazione veterinaria (il gelato contiene latte, no?);
Per esportare il vino in India occorre registrare la marca nello Stato in cui il vino viene venduto e la registrazione scade dopo solo un anno;
Le etichette dei prodotti in entrata in Cina devono essere scritte in cinese mandarino (anche il colore, la forma e i caratteri da usare sono regolamentati) e devono essere approvate 90 giorni prima della vendita;
Particolarmente severe le norme igieniche nel Paese asiatico dopo lo scandalo del latte alla melanina (due dei colpevoli sono stati condannati alla pena di morte). Più severe di quelle europee, evidentemente, se per vendere in Cina la carne gli importatori dell’Unione Europea devono produrre un “Verbale di sopralluogo per l’accertamento dell’idoneità strutturale ed igienico sanitaria degli stabilimenti”;
Una via crucis vendere frutta e verdura in Cina. Gli esportatori devono ottenere un certificato fitosanitario (il timore, spiega Il Sole 24 Ore, è l’introduzione della mosca mediterranea) e l’esame dei documenti che preludono all’ottenimento di questo certificato richiede spesso molto tempo.
[Link: Il Sole 24 Ore Immagine: winenews.it]