12 motivi per andare al Cohouse Pigneto a Roma
Andreste in un locale affollato e rumoroso con tavoli lunghissimi e un menu uguale per tutti? Se state per rispondere con un NO secco, vuol dire che non avete provato il social eating di Cohouse Pigneto. E purtroppo non potrete farlo perché questo appena trascorso era l’ultimo weekend. Cohouse chiude, ma non abbiate paura: Riaprirà a settembre con una nuova incredibile stagione.
Chi ci ha seguito avrà letto delle gesta di Angelo Troiani del Convivio Troiani e di Dino de Bellis del Salotto Culinario.
Cambiando gli addendi, il risultato è stato sempre lo stesso: Cohouse è una formula vincente.
Tanto azzeccata che a richiesta sono ritornati per un 4 mani Arcangelo Dandini, dell’omonimo ristorante, e Alba Esteve Ruiz, di Marzapane, entrambi già ospiti di Cohouse (a dicembre aveva inaugurato proprio Dandini) e mattatori della stagione I.
A settembre si replica e quindi sarà utile prendere qualche appunto sia se si voglia partecipare come commensale che entrare nel cartellone chef.
I 12 motivi per andare al Cohouse Pigneto
1. I ristoranti di successo che hanno partecipato smontano uno dei teoremi propagatisi alla notizia dell’apertura di un locale multifunzione e senza chef resident. Non si può fare un locale senza chef. Invece si può fare benissimo. Basta rompere lo schema tradizionale.
2. Caduta anche un’altra tesi: i migliori ristoranti di Roma non aderiscono perché significherebbe cannibalizzare il proprio ristorante e farsi concorrenza da soli in città. Sabato da Marzapane era sold out come al solito e da Dandini non c’era posto. Sono formule di consumo diverse, più chiare in un 4 mani.
3. La contiguità territoriale in una città come Roma non è un fattore invalidante per il proprio ristorante. Sono i quartieri a tracciare i confini per l’utenza e il Mandrione/Tuscolano non è Prati/piazza Cavour né Salario/via Velletri.
4. Arrivate presto per mangiare e scambiare quattro chiacchiere con chi non conoscete. Il social è limitato ai posti accanto ai vostri, ma quando la sala si riempie e sul lato bar parte la musica sarà difficile andare oltre un “cosa hai detto?”.
5. Il servizio è puntuale e vi spiega chi sono gli chef, i piatti e cosa berrete. Non c’è il temuto effetto “un momento di attenzione”, ma lo chuchotage è modalità gradevole.
6. Il menu è fisso e vi permette di valutare se vi piace prima della prenotazione. Se lo reputate uno svantaggio o siete abituati ad ordinare alla carta in quel ristorante, andate alla sede abituale.
Ok, il prezzo è giusto
7. Il prezzo è competitivo. Sei portate a 50 € con abbinamento di un calice di vino per portata (5 portate a 45 €).
8. Il social eating è un appuntamento al buio: potreste avere di fronte chi è allergico al flash della vostra macchina fotografica o chi è tifoso dello chef che non è presente. Tenete a mente il punto 4 e avrete maggiori possibilità di spostarvi.
9. Il vino non è dichiarato. Se sul punto siete intransigenti, forse sarebbe il caso di chiedere se la lista è disponibile ed evitare di roteare gli occhi a ogni calice versato.
10. State mangiando e non siete a una gara di degustazione né dovete dimostrare di conoscere la provenienza di tutti gli ingredienti utilizzati nel piatto.
11. Al menu degustazione del Cohouse Pigneto è possibile scegliere di aggiungere altre 2 portate con un costo supplementare di 10 € a piatto. Non scartate l’ipotesi della condivisione a metà dei due piatti ulteriori con il vostro compagno/a di cena.
12. La cucina è a vista nella parte di assemblaggio dei piatti, ma una sbirciatina alla zona preparazione non è impossibile.
Vi siete convinti della validità della formula social eating romano?
Nel dubbio, vi dico di andare ad assaggiare nei rispettivi ristoranti i Raviolini di parmigiano e la Millefoglie di Alba Esteve Ruiz a Marzapane.
E di chiedere ad Arcangelo Dandini se è disponibile la Minestra tiepida e il Risotto.