Pizzagate. I pizzaioli accettano la classifica di Where to eat pizza a Milano
Tanto tuonò che alla fine piovve. Il libro-guida-classifica Where to eat pizza curato da Daniel Young per i tipi della Phaidon è stato presentato a Milano.
Niente Reggia di Caserta, municipio di Caiazzo, Reggia di Capodimonte o un qualche altro angolo di Campania, la regione che conta nella classifica della discordia, quella che ha messo in fila le preferenze espresse, e che si è suicidata nel lancio del libro collettivo (con tanti segnalatori tra giornalisti, appassionati, blogger, consulenti e pizzaioli) con la mappa della pizza nel mondo.
La spunta Paolo Marchi con il suo Identità Golose e Identità di Pizze mettendo su il cappello in una conferenza che ha tributato il riconoscimento della superiorità di Franco Pepe assiso al tavolo dei relatori.
Forse non è stata la festa che molti si aspettavano, ma Franco Pepe è ritornato a Milano in una posizione ben più comoda di quella che aveva salutato qualche anno fa al termine di un’avventura non proprio brillantissima consumata, ironia della sorte, nella stessa piazza che ospita Eataly dove è stato officiato il rito dell’investitura.
Presenti anche il numero 2 e 3 della classifica, cioè il romano Gabriele Bonci e il napoletano Ciro Salvo, insieme agli altri che hanno popolato la classifica che dunque riceve l’imprimatur degli stessi protagonisti.
Vi lascio alla traduzione di un interessante articolo apparso sull’Economist qualche giorno fa che disegna il perimetro in cui si muove la pizza napoletana, quella al centro del pizzagate in salsa campana.
Mi sembra interessante che l’oggetto della tutela si sposti dal prodotto in sé alla capacità di fare e, soprattutto, alla visione più contemporanea della tradizione, quella che spesso diventa una gabbia e che in città come Napoli o Firenze rischia di schiacciare definitivamente lo sguardo sul futuro. E condannare la pizza all’implosione.
Una pizza che cerca tutela
Chiamatela pizza, pitta o fougasse: quando i vacanzieri europei sceglieranno mete del Mediterraneo questa estate, banchetteranno con un qualche tipo di focaccia variamente condita. Questi piatti hanno origini lontane. Nell’Eneide gli eroi di Virgilio mangiano frutti di bosco adagiati su pezzi di pane duro e, affamati, alla fine non risparmiano il pane: “Vedete, divoriamo i piatti su cui abbiamo mangiato”.
Di tutti questi “piatti” commestibili è la pizza che è diventata l’impasto preferito nel mondo, su cui in ciascun paese viene utilizzato un condimento tipico: cozze in Olanda, alghe e pollo in salsa Teriyaki in Giappone. Nata a Napoli, la pizza moderna era il cibo dei poveri. Un visitatore americano dell’Ottocento, l’inventore del telegrafo Samuel Morse, la descrisse come “simile a un pezzo di pane che è stato tirato fuori puzzolente da una fogna”. Per Alexandre Dumas era invece “il termometro gastronomico del mercato”: se la pizza condita con il pesce era a buon mercato significava che la pesca era stata abbondante, se quella condita con il solo olio era costosa voleva dire che il raccolto delle olive era stato cattivo.
La pizza dei giorni nostri è uno specchio gastronomico che riflette le preoccupazioni italiane nei confronti della globalizzazione. Gli italiani sono giustamente orgogliosi del loro cibo, tuttavia sembrano allarmati nell’osservare il suo imbastardimento ad opera del resto del mondo. Temono che il meglio della civiltà italiana possa essere saccheggiato da altri. Dopotutto è stata l’America, e non l’Italia, a trasformare tutto, dalla pizza al cappuccino, in franchising globali di successo; Domino e Starbucks stanno cercando persino di diffondersi in Italia.
E ora Napoli combatte per rivendicare la “vera” pizza. Il mese scorso centinaia di pizzaioli armati di berretti rossi si sono messi insieme per preparare la pizza più lunga del mondo (1.853,88 metri), che abbiamo visto serpeggiare sul lungomare stagliandosi contro la favolosa vista del Vesuvio e di Capri. Tutto per sostenere la richiesta italiana di riconoscimento da parte dell’UNESCO dell’arte della pizza napoletana come patrimonio culturale immateriale dell’umanità, assieme alla falconeria mongola e alla capoeira brasiliana. Il verdetto è atteso per l’anno prossimo.
Nel 2010 l’Unione Europea ha riconosciuto alla pizza napoletana il marchio di specialità tradizionale garantita (STG), stabilendo che la pizza napoletana STG certificata deve avere una base di impasto a doppia lievitazione, steso a mano e di diametro non superiore a 35 cm. Deve essere spessa 0,4 cm al centro e tra 1 e 2 cm sul bordo. Può essere condita solo in tre modi: con pomodoro e olio extravergine, oppure con mozzarella di bufala o fiordilatte. Deve essere cotta in forno a legna e mangiata al momento; né congelata, né messa sottovuoto.
Si tratta di dogmatismo culinario. Gli ispettori europei di certo hanno di meglio da fare che andarsene in giro con un righello. I pizzaioli sostengono di chiedere semplicemente il riconoscimento della loro tradizione. Uno dei timori più diffusi, Dio ce ne scampi e liberi, è che l’America possa provare a ottenere un riconoscimento per la sua pizza, di qualità inferiore. Quindi Amburgo dovrebbe richiedere il copyright per l’hamburger, o la Crimea per la tartare? A dirla tutta, l’Italia è lo stato che richiede con maggiore frequenza all’Unione Europea il riconoscimento di “indicazione geografica” (IG), che sia quello severo di “denominazione di origine protetta” (DOP), ad esempio per il Chianti Classico, oppure quello meno rigido di “indicazione geografica protetta” (IGP), ad esempio per i cantucci toscani, fino ad arrivare al più debole di tutti, quello delle STG. A parte le STG, l’Italia si è assicurata la tutela di ben 924 prodotti alimentari, vini e altre bevande contro i 754 della Francia e i 361 della Spagna.
Chef, coltivatori e pizzaioli hanno tutto il diritto di dare un marchio ai loro prodotti e di fissare gli standard che ritengono più opportuni. E gli Stati devono ovviamente accertarsi che il cibo sia sicuro. Le stesse amministrazioni hanno un interesse a garantire la qualità di alcune denominazioni di eccellenza – lo Champagne, ad esempio. Tuttavia l’uso eccessivo di IG, imposti dallo Stato, puzza di produttori che cercano di truffare i consumatori. L’Italia tradisce un innato protezionismo: piuttosto che competere su mercati globali, i produttori preferiscono custodire gelosamente il “patrimonio culturale”, chiedere aiuto all’Europa e sfruttare al massimo i vantaggi che possono trarre dai prodotti “di qualità”. In tal modo non fanno altro che complicare gli scambi commerciali, dal momento che l’Unione Europea cerca di impedire ad altri di utilizzare termini quali, ad esempio, “feta”. Hosuk Lee-Makiyama, che fa parte di OPEN, un nuovo gruppo britannico di esperti, afferma che il valore delle indicazioni geografiche nelle intermediazioni commerciali non è provato; si tratta più che altro di un contentino dato alla lobby agricola per compensare i tagli alle sovvenzioni.
Soprattutto, la smania per le denominazioni limita dimensioni, produttività e innovazione delle aziende. Prendiamo per esempio Roberto Brazzale, la cui famiglia produce grana da generazioni. Ha trasferito parte della sua produzione nella Repubblica Ceca dove, sostiene, il latte è di qualità superiore e i costi di produzione inferiori. Il suo “Gran Moravia”, fatto con metodi italiani e invecchiato in Italia, è praticamente indistinguibile dal “Grana padano” ufficiale, eppure non può essere identificato come tale. Egli afferma che gli allevamenti della pianura padana non sono in grado di produrre latte a sufficienza per soddisfare la potenziale domanda globale di grana italiano; e che decidere che debba essere utilizzato caglio animale piuttosto che vegetale significa far sì che i produttori di formaggi abbiano difficoltà a vendere i propri prodotti ai vegetariani, così come ai musulmani e agli ebrei osservanti.
Slow food, economia lenta
L’amore dell’Italia per la tradizione è un alleato perfetto per vacanze idilliache, vini fantastici e cibo delizioso. Gi italiani amano pensare che arte, cultura e stile di vita possano tirarli fuori dal torpore economico. Ma sacralizzare il patrimonio culturale costituisce invece un grave peso contro la ripresa. L’Italia non vede miglioramenti di produttività da almeno un decennio, e questo in parte perché le sue aziende restano piccole: in media contano sette dipendenti, più o meno le dimensioni di una pizzeria familiare. I prodotti artigianali non offrono alcuna salvezza. L’Italia non ha multinazionali del cibo di cui poter parlare (e nemmeno grandi distributori, tipo la francese Carrefour). Potrà anche essere la patria dell’espresso, ma sono i vicini svizzeri che hanno inventato il Nespresso.
Se la pizza incarna le sventure italiane e ce le serve su un piatto, può anche offrirci però una speranza. Osserviamo attentamente la pizza napoletana: i succulenti pomodori provengono dal nuovo mondo; la migliore mozzarella è fatta con il latte di bufala, un animale asiatico che potrebbe essere arrivato in Italia con le tribù di barbari che hanno conquistato Roma; l’aromatico basilico ha origini indiane. Gli emigranti napoletani si sono portati la pizza in giro per l’Italia e in America. Il genio italiano risiede nell’inventiva del suo popolo e nella sua capacità di adattamento, e non in una terra consacrata, né in una tradizione immaginaria canonizzata dallo stato. Altrimenti non possono esserci che paralisi e fossilizzazione culturale.
[Immagini: Luciano Furia]