Wild food. Cos’è e dove praticare foraging, cucina selvatica e delivery
Credevamo che il fenomeno wild food fosse solo in Scandinavia tra cortecce, muschi e formiche impiattati da Renè Redzepi e accoliti. Invece c’è anche a casa nostra un movimento foodcultural e geogastronomico molto ampio e articolato. E riguarda il mangiare, il bere, il conservare e il vivere.
Difficile tracciarne i confini esatti, pur essendoci un fondo comune di valori come la sostenibilità, il rispetto della natura originaria del territorio, delle stagioni e pratiche come il foraging, cioè la raccolta dei prodotti spontanei della flora.
Detto questo, il wild food si dirama. C’è un wild food eminentemente selvatico, un altro più silvestre, un altro addirittura quasi selvaggio con vari gradi di trasformazione degli ingredienti e di tecnica-tecnologia.
Ma da notare: sia “selvatico”, che “silvestre”, che “selvaggio” derivano da silvă, cioè “selva, bosco” in latino. E tutte e tre gli aggettivi sono possibili traduzioni dell’inglese “wild”. Wild food che passione.
1. Il wild food da Radici di Mirko Gatti
Formazione tra Londra e Copenhagen (Noma compreso) ma radici lombarde, Mirko Gatti ha chiamato proprio “Radici” il suo ristorante nel comasco, vicino a S. Fermo della Battaglia. La sua tundra è la Val d’Intelvi e i boschi circostanti casa, i fornitori fidati che lavorano come lui.
La sua idea di wild evolve mese dopo mese, raccolta dopo raccolta, esperimento dopo esperimento tra fermentazioni, essicazioni, affumicature, cristallizzazioni, laccature. Ora la più compiuta (non certo definitiva) espressione di questa visione è nei menu Habitat, che mettono in tavola un ambiente naturale, dall’amuse-bouche al post-dessert. Flora e fauna.
Nel menu Habitat foresta (95 €) il più attuale di quest’autunno – servito anche a pranzo – c’è un compendio di prodotti che include pigne, foglie, aghi, funghi, fiori, pollini, bacche, mieli, oli aromatizzati… e diversi accomodamenti (oddio, mi sembra di parlare come l’Artusi) di animali quali l’anatra, il capriolo, il cinghiale cucinati nelle loro parti sia nobili sia povere – rese altrettanto nobili.
“Mi piace camuffare” mi ha detto “ma a volte vado nudo e crudo”.
Uno dei piatti più belli di questo percorso dai colori terrigni e rossicci, dai camuffamenti spiazzanti, è stata una cremina di tuorlo d’uovo, melissa, pesto di radici fermentate, geranio limone in cui intingere la punta di un lichene delle renne fritto. Sfrizzolante e confortante, una sorpresa.
Une delle tappe più leggiadre, il predessert fuori carta (foto copertina di questo articolo) cioè gocce di gelatina di rabarbaro verde adagiate su foglie di nasturzio. Letteralmente si mangia la foglia. Ma molto bello, nel senso di bello e buono, anche il petalo cristallizzato di rosa, cremina di albicocca, pigna sciroppata. Mimetizzato in un letto di petali essiccati.
2. La cucina selvatica vegana di Eleonora Matarrese
Eleonora Matarrese la seguiamo da anni, fin da quando, pugliese trapiantata a Monza, gestiva un bizzarro bistrot di cibo selvatico e vegano, Pikniq. Ora al ritroviamo su Rai1 con Antonella Clerici in un appuntamento televisivo dal riscontro fortissimo.
Eloquio torrenziale, preparazione monstre, Eleonora ti riversa addosso digressioni glottologiche e botaniche ipnotizzanti. Al pubblico di Rai1 e all’affascinata conduttrice del mezzogiorno parla con il sorriso sulle labbra di fitoalimurgia (la conoscenza dell’uso delle specie vegetali a scopo alimentare) e di permacultura (gestione degli ecosistemi perché forniscano sostentamento ed energia senza snaturarsi).
Nel mentre, cucina e serve piatti semplicissimi dall’aria gourmet con mille ingredienti forniti da madre natura, accompagnati da bevande fermentate di origine silvestre. Quasi non ci si accorge che sono tutte preparazioni vegane, con qualche eccezione vegetariana. Un esempio, gli involtini in sfoglia di riso basmati ripieni di verdure selvatiche e verdure lattofermentate, fiori di campo, qui sopra.
E ne ha fatte di cose: rischiato la cecità per una malattia rara, scritto per Bompiani il libro “La cuoca selvatica” con una narrazione densissima e ricette, creato e curato il magazine “I Skogen” (“nel bosco”, in norvegese), fatto la consulente selvatica a Carlo Cracco, tenuto workshop e uscite sul campo per formare nuovi forager, riaperto Pikniq sotto forma di laboratorio con e-shop, home restaurant e B&B in una villa liberty nei boschi della Valganna in provincia di Varese (al momento, l’accoglienza è solo su prenotazione) – la stessa valle del leggendario birrificio-monumento Angelo Poretti.
3. Wild food e delivery: Eugenio Boer
Eugenio Boer, con il suo foneticamente inconfondibile ristorante Bu:r, in questi giorni è tornato più che mai alla carica proponendo la rodata versione delivery di una parte del menu, forte del primo lockdown. Peccato, perché avevo già deciso di provare una sera a cena al suo ristorante il canederlo di spinaci, funghi pioppini, brodo di legno di nocciolo e nocciole. Lo troverò anche a pranzo, mi ha assicurato.
Boer può essere un esempio di quegli chef, come anche Raffaele Lenzi, che giocano con ingredienti naturali eclatanti e inattesi, senza perdere la piega gourmet della loro cucina. Io le direi incursioni silvestri.
4. Il pane di licheni e corteccia di Stefano Basello
Come anche Stefano Basello che, nel suo Friuli impasta anche il pane con le farine cosiddette di sussistenza della tradizione montanara – ricavate da licheni e corteccia interna di abete rosso e bianco – facendolo anche con gli alberi devastati dalla tempesta Vaia di 2 anni fa.
5. Wild Food in Piemonte
O come Gian Maria Galliano che nel suo Euthalia in Piemonte propone un’immersione totale nella montagna e, oltre alle erbe spontanee che raccoglie in montagna “l’uso dei muschi e dei licheni, dei funghi, del legno e della terra stessa”.
6. Wild food e bevande
C’è poi l’intero capitolo delle bevande wild. Che non sono solo i fermentati, gli spumantini, i kombucha e i succhi di Mirko Gatti o della Cuoca Selvatica.
Sono anche per esempio, gli spiriti selvatici del progetto Selvatiq, ricavati da specie botaniche invasive. Ve ne avevamo parlato prima che il coronavirus scompaginasse i programmi e i calendari.
Valeria Margherita Mosca Caglio, che già aveva fatto parlare di sé per il lab in cui opera e per il primo bar endemico, ora lancia una bibita in lattina tutta naturale, una “soda di abete” frutto degli scarti delle foreste di abete rosso (ce n’è anche una di flavour più Mediterraneo, dalle foglie del fico selvatico). Dove si dimostra che quando l’uomo coopera con l’ambiente, tutto cambia.
Ma sarebbe il momento, approfittando di questo tempo dilatato del temuto lockdown, di scrivere una mappa del wild food in Italia, da Nord a Sud.
Radici Restaurant. Via h. Dunant 1. S. Fermo della Battaglia (CO). Tel +393490683973
Pikniq. via Francesco Comolli 2. Valganna (VA). Tel +393477523337
Bu:r. Via Crivelli. Milano. Tel. +390262065383
La di Moret. Viale Tricesimo 276. Udine. Tel. +390432545096
Ristorante Euthalia. Strada Statale 28, 8/C. Vicoforte (CN). Tel. +390174563732
[Immagini: iPhone di Daniela; Eleonora Matarrese; siti ufficiali Bu:r, Euthalia, Selvatiq]