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14 Ottobre 2019 Aggiornato il 14 Ottobre 2019 alle ore 17:12

Chef, ho la laurea in influencer e ti pago con i follower

La notizia gira sui social in questi giorni, ed è arrivata anche ai quotidiani: sarà possibile avere una laurea in influencer. O per lo meno questo è, in
Chef, ho la laurea in influencer e ti pago con i follower

La notizia gira sui social in questi giorni, ed è arrivata anche ai quotidiani: sarà possibile avere una laurea in influencer. O per lo meno questo è, in soldoni, il modo in cui viene riportata dai media la notizia di un percorso “influencer” (sì, detto malissimo) nella laurea in Scienze della Comunicazione proposta da eCampus, una università online.

Potete immaginarvi i commenti: ridicolo, ma come ci avranno pensato, ma ci sarà anche un esame in rossetti, adesso ci vuole una laurea per imbrogliare la gente consigliando dei prodotti di mer*a? E puntualmente Lercio sintetizza la questione in una battuta fulminante: “Convince altri 100 amici a iscriversi al corso da influencer e riceve la Laurea ad honorem“.

Già, perché un ulteriore sviluppo della comunicazione socialmediatica è il pagamento tramite follower : ho XXmila follower su Instagram, un piatto è gratis (vedi This Is Not A Sushi bar).

Ma è davvero tutta fuffa da fuffblogger, per usare un termine caro al noto critico mascherato VMVisintin?

«L’Ateneo eCampus è stato istituito quale Università telematica con Decreto Ministeriale 30 gennaio 2006. Ha sede operativa presso l’ex centro IBM di Novedrate (CO), in un campus immerso nel tranquillo verde della Brianza con 270 camere e in un insieme di spazi e luoghi di interesse a disposizione degli studenti, dei professori e degli ospiti italiani e stranieri per gli esami e le attività di arricchimento curriculare quali corsi intensivi, seminari e convegni.»

Diciamo che le garanzie “tecniche” ci sono, ovvero eCampus è un’università riconosciuta dal MIUR. C’è poi un piano di studi, suddiviso in tre anni, con 22 insegnamenti, tirocini formativi e così via.

Le materie d’insegnamento vanno dalla semiotica e sociologia dei linguaggi alla psicologia e sociologia della moda, dall’inglese allo spagnolo, dall’estetica della comunicazione al social media marketing, ai laboratori di scrittura (che, a nostro parere, sono un po’ pochi, e conferiscono solo 2 crediti), dai linguaggi dei nuovi media all’etica della comunicazione, al diritto dell’informazione e della comunicazione, all’organizzazione di eventi e ufficio stampa e alla storia del giornalismo (materia quest’ultima opzionale e forse non molto rilevante). Magari sarebbe preferibile avere qualche informazione in più su chi tiene i corsi, sulle modalità pratiche di svolgimento di laboratori e tirocini, d’accordo.

Anche la presentazione del corso è molto chiara:

«Il corso forma la figura professionale dell’influencer, una figura relativamente recente nata dai social network e che, grazie alla fiducia del pubblico, svolge il ruolo di “ambasciatore” di se stesso e dei marchi che rappresenta. L’influencer è un prescrittore, un leader di opinione che può ricevere un compenso finanziario per il suo lavoro. Alcuni influencer provengono dal mondo delle celebrità, ma la stragrande maggioranza “viene dal nulla” trovando il proprio spazio per un percorso professionale. Questa combinazione di aspettativa di fama e notorietà, insieme a quella di fare di questo ruolo un vero e proprio lavoro esercita una grande attrazione per una popolazione, per lo più giovane, desiderosa di partecipare a tale attività come esercizio professionale. In questo contesto diventa essenziale presentarsi al mercato con un’adeguata formazione accademica: questo corso di laurea ha pertanto l’obiettivo di preparare una figura in grado di esercitare la propria attività in maniera professionale, svincolandosi da quella mancanza di rigore e dall’utilizzo di cattive pratiche che penalizzano chi aspira al ruolo di influencer ma non ha un’adeguata preparazione per avvicinarsi con competenza a questo settore.»

Insomma, le critiche verso un percorso di studi che mira a dare una qualifica di professionalità a un’etichetta divenuta infamante, assegnata spesso da giornalisti o da opinionisti in rete che sono un po’ parte in causa (cos’altro è un giornalista che racconta ed esprime pareri su un fondotinta o un nuovo modello di autovettura, se non una voce che “influenza” i lettori, pagato sì dal suo giornale, che però a sua volta è in qualche modo “pagato” e influenzato da aziende, proprietà, inserzionisti e così via?), sembra una contraddizione in termini. La spinta verso una moralizzazione del settore (abbiamo visto tutti blogger e giornalisti richiedere campionature e forniture di prodotti da testare vestire cucinare approvare per poi scriverne senza esplicitare io “scambio di merci”) aveva portato all’istituzione di una serie di hashtag (#ad, #adv, #noadv e simili) – e una specie di “master in influencer” potrebbe essere un ulteriore passo in avanti, tanto che viene il sospetto che le critiche provengano a volte da settori che vedono insidiata la propria posizione di influencer praticanti ma inconfessati.

Detto in modo più professionale: «Gli influencer sono l’evoluzione dell’editoria che l’editoria non ha voluto percorrere, considerarli degli scappati di casa senza arte né parte rivela molto di te e delle tue competenze. E indignarsi perché qualcuno prevede un percorso di studi per dare sostanza a un talento è una contraddizione in termini.» Lo ha scritto su Facebook Mafe De Baggis su Facebook, dove si definisce “a reluctant methodologist”, e che è “nativa digitale” e consulente di comunicazione da 25 anni. Ed è in larga parte condivisibile anche il post di Costanza Jesurum su bei zauberei, “Ferragni, De Lellis, e gli specchietti per le allodole”, che allarga il discorso dal caso personale al caso culturale. Ovvero, all’inadeguatezza e al ritardo, fra le altre cose, dell’editoria cartacea e “istituzionale” di fronte ai nuovi media.

Già, Chiara Ferragni e Giulia De Lellis, ultime in un parterre che ha già visto deprecare la presenza online di – nel nostro caso – foodblogger e food influencer (si veda in proposito il nostro articolo sulla relativa puntata di Report).

Vediamo un po’ cosa si è detto, e scritto, su queste questioni qui su Scatti di Gusto. Fatta salva l’opportunità di codici identificativi della pubblicità più o meno “indiretta” (ma veramente c’è chi pensa che se una bella ragazza mi dice che con il deodorante X ringiovanisco di dieci anni, e bevendo Y dimagrisco, e che ogni prodotto è cariiiino, lo fa gratis?), che peraltro andrebbe imputata a chi istituzionalmente dovrebbe o potrebbe occuparsene, come sosteneva la campagna portata avanti da Doof, e i primi tentativi di risposta (vedi Instagram), le polemiche ad esempio sull’acqua Evian griffata da Chiara Ferragni sembrano tuttora ridicole, mentre sembrano ancora valide le nostre 10 regole per diventare food influencer su Instagram – purché #ad o #adv.

Insomma: fare l’influencer è (può essere) un lavoro serio.

Emanuele Bonati
"Esco, vedo gente, mangio cose" Lavora nell'editoria da quasi 50 anni. Legge compulsivamente da sessant'anni. Mangia anche da oltre 60 anni – e da una quindicina degusta e racconta quello che mangia, e il perché e il percome, online e non. Tuttavia, verrà ricordato (forse) per aver fatto la foto della pizza di Cracco.
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