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Ristoranti
19 Aprile 2011 Aggiornato il 24 Aprile 2012 alle ore 16:59

Cool, lobbysta, mediatica, democratica. Ma la World’s 50 Best è, anche, credibile?

Alla fine ha (ri)vinto lei, la S.Pellegrino World's 50 Best Restaurants. Mediatica, sponsorizzata, veloce, spettacolare, globale, internettiana,
Cool, lobbysta, mediatica, democratica. Ma la World’s 50 Best è, anche, credibile?

Alla fine ha (ri)vinto lei, la S.Pellegrino World’s 50 Best Restaurants. Mediatica, sponsorizzata, veloce, spettacolare, globale, internettiana, twitterizzata, cool. Spettacolo nello spettacolo, con la platea dei vip offerti allo sguardo, in mondovisione-streaming, di 10.000 foodies di tutto il mondo.

‘Democratica’, la definisce il presentatore nei minuti che precedono l’annuncio dei 50 Best. Certamente antiburocratica, trionfo dell’esperienza soggettiva e dell’assenza di criteri di giudizio. Un segno dei tempi che mettono la Michelin (e tutte le guide cartacee) sulle scale che portano in soffitta, tra i vecchi arnesi di un mondo al tramonto?

Quando nasce, nel 2002, su iniziativa del periodico inglese Magazine, è una votazione informale e agile. E anche oggi che si è data, sulla scia del successo, modalità di funzionamento più definite (divisone del globo in regioni, ognuno degli 837 votanti ha diritto a sette voti), resta il marchio di fabbrica di un evento intenzionalmente sciolto dai vincoli della critica gastronomica tradizionale. “Non ci sono criteri di giudizio predeterminati”, si legge nella presentazione ufficiale della classifica. “Per esempio un’esperienza interessante in un locale semplice ma eccezionalmente innovativo può essere giudicato migliore di un pasto più ricco in un ristorante blasonato”.

Basta con l’opulenza, fine dell’obiettività. “Dato che questa lista si basa su esperienze personali non può essere definitiva”, si schermisce la classifica. “Ma riteniamo che sia una fotografia onesta del gusto attuale e una guida credibile dei posti migliori in cui mangiare”.

Credibile? Certo più agile e aperta al mondo, liberata dal monopolio francese sul gusto, le porte quasi spalancate sulle cucine dei paesi emergenti o in via di sviluppo (Perù, Singapore, Brasile, Sudafrica, sempre più numerosi tra i primi 100). Ma aperta anche a nuovi nazionalismi: sul versante foodies i più attivi su twitter nelle ore della diretta erano gli Olandesi e gli Spagnoli ma c’è da scommetere che qualche Stato più interventista si stia già dando da fare presso i giurati per ‘spingere’ i ‘suoi’ ristoranti (piccole Francia crescono?)

Una classifica sottratta alle elites professionali e al monopolio di giudizio di lavoratori dedicati (i giudici anonimi pagati per assaggiare, aggiustando le papille gustative a criteri aziendali) e consegnata nella mani ecumeniche di professionisti del cibo (tra i votanti ci sono ristoratori, chef, critici gastronomici e foodies accreditati) ai quali, però, non è richiesta prova cartacea dell’avvenuto passaggio nel ristorante votato, nei 18 mesi precedenti la votazione, come pure sarebbe richiesto. Una classifica senza l’ossessione del conflitto di interessi e senza le ‘mura cinesi’ tra votante e votato. Una classifica dove non è dato sapere chi ha votato che cosa e che dà voce a globe-trotter dal portafoglio giocoforza guarnito (tre dei sette voti a disposizione del giurato devono essere dati a ristoranti fuori regione e perciò se un giurato europeo vota un ristorante di Singapore è perché si è affidato al giudizio di qualcun altro o non gli mancano i mezzi per volare).

Ha forse ragione il mitico Ferran Adrià quando dice: “Dovrebbero chiedere il conto ad ogni giudice per ogni ristorante per il quale ha votato e cercare di controllare le lobby cambiando ogni anno tutti i membri della giuria. Ecco come far guadagnare credibilità alla lista”.

Foto: William Reed Business Media

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