Memorie di una vegana pentita
La prima volta che ho sentito pronunciare il termine vegano avevo 13 anni e in Italia ancora non era sbarcato (peraltro non è mai stato tradotto). Un caro amico americano, di poco più grande di me, mi ha annunciato questa scelta di vita con molta solennità, mentre lo osservavo perplessa intento a trangugiare un enorme ciotolone di riso thai.
Erano gli anni Ottanta, quelli del boom degli hamburger nel panino di note catene d’Oltreoceano, e nulla faceva prevedere che di lì a un decennio qualcuno iniziasse a spacciare per formaggi dei blocchetti gelatinosi fatti con i semi fermentati. Il tofu fu il primo di una lunga serie.
All’epoca dire “sono vegano” faceva figo però. Dopo aver sganciato la bomba c’era sempre qualcuno che timidamente chiedeva spiegazioni. E allora giù con le argomentazioni, che solitamente iniziavano dal lato etico, e proseguivano con fattori ambientalisti e terminavano con studi sulla tossicità delle proteine animali per la salute umana (volendo, esistono studi a sostegno di qualunque tesi). A volte bastavano i fattori ambientali, dipendeva dall’irriducibilità dell’interlocutore.
La verità è che non c’è un solo motivo per scegliere di sacrificare buona parte degli alimenti piu gustosi e gratificanti che il mondo ci invidia. Nessuno diventa vegano perché non ama mangiare carne, pesce, latte e derivati. L’origine è varia: etica per la maggior parte. E’ lo stesso impulso che suscita l’orrore davanti alla vetrina di una pellicceria (almeno a me), quello che ti fa immaginare la povera bestiola vivente e impaurita di fronte al destino che incombe. Un po’ è colpa di Walt Disney, in effetti, Bambi, Dumbo e Simba hanno cambiato la nostra percezione del mondo animale, anche in modo fuorviante.
E’ stata etica per me, ha coinciso con l’arrivo a casa mia di due quadrupedi (che nutro a carne, peraltro), ed è stato un graduale cambiamento di abitudini più che una scelta tout court. Mi sono ritrovata a evitare carne e pesce e derivati animali in casa e fuori, e non è stato facile per niente.
Dopo intere stagioni a pizze marinare (pomodoro aglio e origano), che l’assenza di un qualsiasi tipo di condimento grasso rendeva simili al cartone da imballaggio appena si freddavano un po’, e tragiche insalate con l’immancabile focaccia, sotto gli sguardi desolati dei commensali ho ceduto alla bufala e alle burrate. Poi agli stagionati e agli erborinati. Sono ricomparsi anche in frigo, ma consumati con moderazione: sono pur sempre cibi ricchi di grassi, colesterolo e calorie!
Inoltre, avevo scoperto di essere intollerante alla soia: quale velo più pietoso della salute poteva giustificare il ricorso al ‘veleno bianco’ quei ‘latte e derivati’ trattati da molti nutrizionisti come emissari di Satana.
Consapevolmente, però, cioè da fonti sostenibili, allevamenti rispettosi (per quanto possibile), non intensivi, di animali nutriti ad erba, o che trascorrono nei prati gran parte delle giornate. Sì, quando ho rinunciato al veganesimo radicale ho imparato a leggere le etichette nei dettagli, ed è un’abitudine che non mi ha mai lasciato, nemmeno ora che sono tornata (quasi) onnivora.
Dopo i formaggi è stata la volta delle uova, solo biologiche, quelle con lo zero all’inizio della stampigliatura, e poi del pesce. Il tonno ha rotto il ghiaccio: la scatoletta (‘pescata’ dolphin safe, s’intende) ha spesso risolto cene rimediate sul filo del rasoio.
Perché diciamolo: essere vegani ma anche vegetariani è un lusso che non si possono permettere tutti. Richiede tempo e pazienza. Una fetta di salame si scarta e si mangia. La verdura va lavata, pulita e cucinata; si mantiene per pochi giorni e congelata no, non è la stessa cosa. Senza contare il costo del biologico.
L’insalata in busta è stata per molto tempo la mia soluzione, ma poi sono usciti fuori gli studi sul biota intestinale, e un prodotto lavato con ipoclorito di sodio (Amuchina) non è proprio l’ideale per fare il pieno di ‘batteri buoni’. Inoltre, alimenti pronti preparati industrialmente arrivano con un corredo di imballaggi che nel giro di un paio di giorni saturavano il contenitore della differenziata: che senso ha combattere gli allevamenti intensivi perché inquinano e poi intasare il mondo con la plastica dell’insalata?
L’idea di allevare un animale per macellarlo, confesso, mi continua a turbare, per cui non ho reinserito la carne nel mio menu. Il prosciutto crudo continua a perseguitarmi nei sogni, quello di montagna, con il grasso rosa (NON bianco) e tagliato al coltello. Ma è un dolore che in definitiva posso sopportare.
P.S. Il mio amico americano, dopo 30 anni senza derivati animali si è trasferito in Irlanda e ha cominciato ad allevare razze rare, che poi macellava e mangiava. “Se non ci fossimo noi allevatori alcune razze sarebbero già estinte” mi diceva con lo stesso tono di quando si è proclamato vegano. Ciao Marcello, queste righe sono per te.